Lenzi e la generazione stanca di lavorare gratis per Zuckerberg

Ogni famiglia ha un quarto di sangue oscuro che si tramanda, anche chi ha trovato pace deve sapere che gli scorre nelle vene e basta poco perché torni a reclamare il diritto ereditario. Ne è convinto il protagonista di “In esilio-Se non ti ci mandano, vacci da solo” (Rizzoli, pagg. 223, euro 18), un cinquantenne livornese che decide di ritirarsi in campagna per stare lontano da una società in cui non si ritrova («Io del mondo non volevo saperne più nulla»). Simone Lenzi, cantante dei Virginiana Miller, già autore di libri come “La generazione” (la ricerca di un figlio vista dalla parte di lui) che ha ispirato il film “Tutti i santi giorni” di Virzì, firma ora questo romanzo, così autobiografico da essere definito dallo scrittore stesso “autofiction”.
Uno spaesamento devastante, un senso di non appartenenza che deriva dal fatto di aver attraversato tanti mondi senza trovare mai il proprio. Tutto diventa insostenibile: «Il fastidio mi era preso anche mentre camminavo la sera sul lungomare o lungo i canali. I ragazzi e le ragazze di quarant’anni col birrino in mano, mi davano fastidio. La parola birrino mi dava fastidio. Così avevo smesso di uscire la sera». Il passo successivo è il silenzio: «Mi vuoi dire qualcosa sulla situazione del porto? No. Mi vuoi dire qualcosa sull’amministrazione comunale? No. Che ne pensi della raccolta differenziata? No. Ma che risposta è no, ti ho chiesto cosa ne pensi. Ho capito, ma io non ne penso, quindi, per brevità, no. E pur standomene zitto sempre e in ogni modo, zitto al mattino, zitto al pomeriggio e alla sera, chiuso in casa, alla fine io e mia moglie cominciammo a prendere in considerazione l’esilio».
Tra tragedia e commedia, Lenzi sceglie sempre la seconda e anche nelle riflessioni più amare, strappa un sorriso. Per esempio quando il protagonista comincia a dire una serie di no.
No a Facebook, dove si lavora gratis dieci ore al giorno creando contenuti per Zuckerberg, restando in attesa che “qualcuno metta mi piace al tuo piccolo sforzo narrativo” e grazie all’algoritmo della consolazione che riunisce in micromondi i miciofili, i vegani, i piddini, i nazisti dell’Illinois, gli juventini… (a ciascuno il suo) l’individuo non fa altro che illudersi che tutto il mondo gli somigli e non ci sia altro.
No alle mode alimentari e a chi dice “Un tempo non c’era la celiachia che c’è oggi”, infatti la gente che viveva a chilometro zero si beccava direttamente “lo scorbuto, la pellagra, il gozzo endemico, il cretinismo atavico, e a trent’anni ne dimostrava settanta”.
No agli chef stellati: «Io pago per mangiare qualcosa di buono, non per carezzarti l’ego, capisci amico chef? Altrimenti facciamo che io mangio, ascolto anche tutte le tue chiacchiere, ma alla fine sei tu che paghi me, siamo d’accordo?», perché un tempo «I cuochi erano omoni burberi, puzzavano di amido e miasmi e non uscivano mai dalle cucine, non scrivevano libri, non andavano in tivù, e insomma cucinavano e non rompevano i coglioni».
E, tra le note più dolenti, un no alla politica: «Non dirò più a nessuno quello che penso, ovvero che se questa è la sinistra, a me della vera sinistra non me ne frega più nulla. Se la vera sinistra erano queste matte con i figli di otto anni ancora attaccati ai capezzoli, se la vera sinistra erano questi finti barboni che coltivano l’orto sul balcone, se la vera sinistra era questa pappetta di seitan, se la vera sinistra aveva il sapore insapore del tofu, se la vera sinistra era questo sogno di andare in giro scalzi coi piedi sudici, a me della vera sinistra non me ne fregava più nulla».
Lenzi ha una grande capacità di creare personaggi dai tratti ben delineati e in maniera molto cinematografica (anche questa volta leggendo già si può immaginare un film) e descrivere la crisi della società moderna con il lusso di una serena rassegnazione che non tutti possono permettersi. Se si può muovere una critica a questo libro, scritto con uno stile impeccabile e piacevolissimo, è il pessimismo di fondo, un angosciante senso di rinuncia e un chiamarsi fuori da tutto che può sfociare in uno snobismo fine a se stesso. Si sorride, si riflette ma alla fine rimane un senso di amarezza... Forse è il famoso quarto di sangue oscuro a ridestarsi nel lettore?
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