L’inafferrabile J. Joyce viaggiatore vittoriano che raccontò Trieste

Elisabetta D’Erme dedica il suo nuovo libro di “Ritratti” a tre personaggi inglesi che s’incuriosirono della città
Di Renzo S. Crivelli

di RENZO S. CRIVELLI

Curiosa la prospettiva dei tanti viaggiatori vittoriani del '700 e dell'800 sulla sponda orientale dell'Adriatico. Nella loro smania di conoscere nuovi territori, essi arrivano a Trieste considerandola come un "avamposto" della civiltà, una sorta di "osservatorio privilegiato" sull'Istria e sulla Dalmazia e sui "selvaggi Balcani". Insomma, come la porta oltre la quale "hic sunt leones". Proprio da lì, secondo loro, si sviluppa il fascino mitologico dell'Illiria, che ha il suo spartiacque nel passaggio tra la terra cognita e quella incognita.

Poi, col trascorrere del tempo, a mano a mano che la loro conoscenza di quei luoghi è aumentata, in Inghilterra è fiorita una messe incredibile di "Lonely Planet" dedicate a quell'area, in cui si è andata celebrando la nascita, timida e controversa, del turismo locale, anche se non ancora di massa.

E in quelle "guide" abbondano le osservazioni descrittive più accorate, piene di lodi ma anche di remore e di distinguo, specie negli avvertimenti per i poveri viaggiatori, a rischio di subire disastrosamente e sulla propria pelle ogni sorta di dèfaillance nel campo dell'accoglienza.

Per esempio Thomas Allason, britannico "abroad" nel 1819, può scrivere di Pola che «è segnata, con le sue settecento anime, da un'aria di miseria e di desolazione». Oppure, come fanno gli altri visitatori contemporanei, che in quei luoghi ci si deve rassegnare a dormire in topaie e a muoversi con difficoltà, sempre con l'idea che l'Austria abbia relegato queste terre all'incuria e alla desolazione. Ma, seppur in tali scenari primitivi, tutti convengono che la maggior parte degli abitanti è gentile e piena di umanità.

È un dato di fatto, però, che questi viaggiatori inglesi, fermandosi a Trieste prima di oltrepassare le "porte della civiltà", si lasciano andare a considerazioni lusinghiere sulla città giuliana: da John Gardner Wilkinson, archeologo, che nel 1848 definisce la Dalmazia come "la Siberia dell'Austria" (sessant'anni più tardi James Joyce avrebbe definito Pola come una "Siberia navale") ma che loda Trieste, a John Mason Neale, che nel 1842 afferma che Trieste mostra una «meravigliosa solidità e grandeur nei suoi nuovi quartieri», con le «grandi pietre di calcare usate per la pavimentazione delle strade». Dallo storico Edward Augustus Freeman che nel 1875 celebra Trieste come grande città cosmopolita, all'architetto Thomas Graham Jackson, che nel 1882 vanta i caratteri "orientali" della città, espressi dai «bellissimi costumi greci, turchi e albanesi».

Insomma, a partire dalla seconda metà del '700, quando i britannici, affascinati dalla necessità culturale di compiere, nel loro cammino educativo, un grand tour nel sud dell'Europa, si spingono fino a Trieste e giù verso l'Istria e la Dalmazia, notiamo un fiorire di resoconti e di guide capaci di invogliare i viaggiatori a venire da queste parti. Una ricchezza, questa, dal punto di vista documentario, che Elisabetta D'Erme, studiosa e giornalista triestina che scrive per “Il Piccolo”, ha felicemente convogliato nel volume “Trieste vittoriana: ritratti”, Edizioni Fuorilinea (il libro sarà presentato domani, alle 18, alla Libreria Minerva, in via San Nicolò 20 a Trieste).

D'Erme ha costruito intorno al concetto di tour un arazzo complesso in cui, circondati da una folta pattuglia di precursori non stanziali, emergono ben delineate le personalità e le storie di tre importanti personaggi di lingua inglese che qui passarono periodi più o meno lunghi: il romanziere irlandese Charles James Lever (sepolto al nostro Cimitero Evangelico), il grande esploratore e traduttore sir Richard Francis Burton, e il musicista e cantante lirico Michael William Balfe (con una simpatica appendice dedicata ad un certo J. Joyce, finito a Trieste ben prima del grande scrittore irlandese, di cui daremo conto alla fine).

Cominciamo con Charles James Lever. Figura tra gli autori di un certo pregio nella storia della letteratura irlandese, anche se non è mai stato tradotto in Italia, e fra le sue opere va sicuramente ricordato il romanzo “Lord Kilgobbin”, del 1872, in cui emerge un'accorata indagine sui mali dell'Irlanda e sul suo difficile cammino verso l'indipendenza. Di salute cagionevole, Lever fu (proprio come James Joyce) un "esule volontario", e nel suo peregrinare finì proprio a Trieste nel 1867 con la carica di console britannico.

Una città che egli, all'inizio, considerò marginale e "punitiva", non certo adeguata alle sue aspirazioni, ma che in fin dei conti fu il luogo in cui scrisse alcuni dei suoi migliori romanzi. Abitò a Villa Gasteiger, area di Scorcola, ora abbattuta, che fece lussuosamente ristrutturare, in cui ospitò personaggi di primo piano come Robert Bulver-Lytton e l'editore John Blackwood (tra le sue corrispondenze coi giornali inglesi del tempo figura, tra l'altro, la cronaca dei funerali di Massimiliano d'Asburgo). A Trieste morì nel 1862, dove riposa accanto alla moglie Kate Baker.

Di sir Richard Francis Burton sappiamo ormai quasi tutto, della sua grande importanza come traduttore (prima edizione inglese del Kamasutra), esploratore (la ricerca delle sorgenti del Nilo) e diplomatico (console in Medio Oriente e poi a Trieste). Elisabetta D'Erme ricostruisce qui, con una serie di note selettive, il significato della sua permanenza a Trieste, dal 1872 al 1890, inquadrandolo molto bene nel panorama degli studi post-coloniali (ottime le citazioni da Edward Said, e dal suo Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente).

Spedito a Trieste quasi per punizione, dopo che a Damasco aveva denunciato molte malversazioni delle lobby turche e britanniche, compreso certi dubbi commerci ebraici, anche Burton approdò a Trieste come "esule" (dallo scacchiere internazionale). Ma nella città giuliana si ambientò bene, vivendo dapprima in piazza della Libertà (in un appartamento di 26 stanze) e poi a Villa Gossleth (poi Economo), dove morì. Si inserì ottimamente nella società triestina, e trascorse i suoi anni scrivendo (sulla Dalmazia, sulle Terme di Monfalcone, sul Porto), e traducendo i capolavori della letteratura araba.

Tra gli irlandesi più noti nel settore musicale vi fu anche Michael William Balfe (notissimo compositore dell'opera musicale The Bohemian Girl/ La zingara), che Joyce cita tante volte nelle sue opere. Balfe intrecciò la propria vita con gli anni delle guerre d'indipendenza italiana (un calco di quell'unità che l'Irlanda stentava ad attuare). A Trieste soggiornò più volte, presiedendo alla messa in scena della sua opera La zingara, nel 1854. Che fu un vero successo.

E per quanto riguarda J. Joyce? Di lui si sa poco, solo che scrisse, dopo essere stato a Trieste, i suoi “Ricordi di varie zone dell'Austria e di Trieste”, usciti nel 1850. Omonimo di James Joyce (ma forse si chiamava John, ed era uno pseudonimo), soggiornò all'Hotel Metternich al culmine dei moti del 1848, e fu testimone, e descrisse, la rivolta popolare che, in odio all'Austria, impose il cambio del nome in Albergo Nazionale.

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