L’inconfessabile colpa della signora Ada che diventa rimorso e ricatto

Ancora un quarto d’ora di verde carsico, di silenziosissime curve, e l’anima della povera Ada avrebbe trovato giustizia, o forse solo vendetta: la gostilna dell’assassino distava pochi chilometri…
Ma il commissario Rizzo continuava a starsene ritto, immobile, le mani sulla ringhiera della terrazza, gli occhi sul paesaggio che digradava verso il golfo, stendendosi piatto fino al punto in cui mare e cielo diventavano un unico, indefinibile azzurro.
Spostò lo sguardo sul luogo del delitto, il castello di Miramare: un bellissimo niente, laggiù, una preziosa crespa nella linea della costa. Poco prima, salendo verso Monte Grisa, aveva preso coscienza del malessere che avvertiva confusamente ormai da qualche mese: un senso di oppressione tra petto e gola. Troppo verde intorno, si era detto mentre parcheggiava nei pressi dell’orribile santuario. Il giallo delle stoppie, sulle colline interne dell’isola in cui era nato, era ormai un richiamo irresistibile, anzi qualcosa di più complicato: un ordine, un rimprovero, una promessa. E inoltre, chissà perché, da quando Ada non c’era più, cioè da quattro giorni, la possibilità di restare a Trieste gli appariva assurda.

Quante settimane mancavano alla pensione? Quasi tre… Sì, avrebbe lasciato questa città, che pure amava, e l’altopiano dove aveva trascorso dolcissime tristissime domeniche, perché gli sembrava che qui, sommerso dal verde, sarebbe appassito prima del previsto.
Sbirciò l’orologio, chiuse gli occhi, li aprì. E decise di ripercorrere mentalmente le tappe dell’inchiesta, ritrovando pensieri e sensazioni, riproducendo dialoghi… Dopo la morte della madre ogni occasione era buona per allenare la memoria. Ma la recente fobia dell’Alzheimer non era l’unica ragione dell’operazione mnemonica che si accingeva a compiere. Temporeggiare prima di chiudere il caso significava tenere l’amica ancora in vita… I morti non morivano del tutto finché le indagini restavano aperte, poi scomparivano per sempre. Sarebbe stato così anche stavolta?
«C’è un motivo per cui la vittima sia morta a Miramare?» gli chiede l’ispettore Righi.
«Non credo». C’è sempre un motivo, pensa, per morire in un posto anziché in un altro.
«Certo si è recata al castello, quel giorno».
«Non per incontrare l’assassino. Se è vero che il cianuro fa effetto dopo trenta minuti, allora la signora non è stata avvelenata a Miramare. Secondo le telecamere è entrata nel parco del museo alle 9 e 5. Ed è morta dopo sette minuti».
«Giusto» annuisce l’ispettore gettando un’occhiata alla relazione del medico legale sulla scrivania del commissario. «A meno che, dopo avere assunto il veleno, somministratole da qualcuno o da lei stessa ingerito, la signora abbia deciso di andare a morire a Miramare».
PAURA DELLA MORTE
Le labbra del commissario tremano un istante, stizzite dall’idea romantica di Righi e dai suoi participi passati. La gioia di vivere di Ada era tale da rendere inverosimile un’ipotesi del genere. Aveva troppa paura della morte, Ada, per andarle incontro. Per questo trascorreva gran parte delle notti al telefono, viaggiava in continuazione nonostante l’età, organizzava cene e riunioni di beneficenza, convegni sull’Olocausto, sull’antisemitismo, visite guidate alla Risiera di San Sabba…
«In ogni caso, a Miramare non ha incontrato nessuno» continua. «L’autista l’ha lasciata all’ingresso. E al museo, a quell’ora, c’erano solo scolaresche. Dunque, caro Righi, la signora è stata avvelenata a casa sua».
È la prima volta, dopo otto anni, che dice: “caro Righi”. Gli dispiace lasciare anche lui.
La Mercedes nera di Ada era stata ripresa davanti al portone del suo palazzo alle 8 e 40, poi, dopo qualche minuto, nei pressi della Stazione e infine nel parcheggio del castello. I conti tornano, e sono confermati dalla testimonianza dell’autista: «Non abbiamo fatto soste lungo il tragitto». Ma la signora non era del solito umore, aggiunge questo settantenne elegante, di un’eleganza démodé, smilzo, la cui pelle rilascia essenze intense, legnose. «Era taciturna, insolitamente seria».
Rizzo, intanto, non smette di pensare a una curiosa circostanza: dopo aver pagato il biglietto, Ada si è incamminata verso la sala V del museo con passo spedito, senza mai fermarsi lungo il tragitto. Come per raggiungere in fretta il luogo dell’appuntamento, lì nella sala tappezzata di libri antichi, al centro della quale si è poi girata verso destra, spalle al mare, e si è accasciata tra i cordoni azzurri delle colonnine divisorie…
Il commissario accese una sigaretta e fece vagare lo sguardo sul porto: dall’alto, le gru a ponte sembravano un gioco per bambini. Se la notte prima di morire Ada non gli avesse detto di volergli parlare di persona, e se non avesse fatto cenno a «una vicenda inquietante», lui non avrebbe chiesto l’autopsia al magistrato, sopportandone in silenzio i sorrisetti sarcastici. E il caso sarebbe stato archiviato, cioè non sarebbe mai stato aperto, dal momento che una vecchia di novantuno anni ha tutto il diritto di andarsene senza che nessuno si domandi perché.
«Perché?» chiede Lavra, la domestica di Ada, quando il commissario le ordina di lasciarlo solo nel grande appartamento tra piazza della Borsa e piazza Unità.
Lui non risponde, Lavra si avvia alla porta.
Tutto è in ordine. La luce entra dalle finestre e sembra ridestare il salone, i divani, il pregiato mobilio, le tele alle pareti, l’agendina telefonica e il portaocchiali sul tavolinetto basso, accanto alla poltrona, lì dove Ada intratteneva allegramente i pochi fissi interlocutori notturni, tra i quali il commissario.
Quel conversare forbito, l’allegro resoconto degli ultimi pettegolezzi dell’alta società cittadina, delle piccole beghe fra i membri dell’associazione delle vittime del nazifascismo, l’apparente frivolezza, tutto ciò, al termine di un’altra inquieta giornata, esercitava su di lui un effetto rilassante.
il caffellatte e la bambina
Lavra… Arrivata in perfetto orario il mattino del delitto, alle 7.30, senza aver notato nulla, assolutamente nulla di particolare. La signora, ha riferito al commissario, era assolutamente «normale». Ha fatto colazione con caffelatte, ha preso le pillole per la pressione. Aveva soltanto un po’ di fretta, e prima di uscire ha detto: «Si è fatto tardi. Un’amica mi aspetta. Un’amica bambina…».
«Un’amica bambina?».
«Sì».
“Un’amica bambina”, bisbiglia tra sé il commissario, intento a perlustrare la camera di Ada. Un sentore di talco emana dai soprammobili. Rizzo apre gli armadi, i cassetti del comò, un portagioielli. La stanza è pregna di innocente voluttà.
Esce dalla camera da letto, entra nel bagno. Sta per chiudere uno stipetto zeppo di medicinali quando nota una scatola rigonfia di tachipirina. Estrae il bugiardino e, insieme, un foglio spiegazzato.
Lo srotola, legge d’un fiato…
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