L’Italia scivola verso il baratro sono sempre più i nonni che mantengono figli e nipoti

di Elisa Cozzarini
In Italia sette milioni di nonni mantengono figli e nipoti, mentre i giovani tra i sedici e trent'anni che non lavorano e non studiano, definiti con l'acronimo inglese "neet", sono oltre tre milioni. Tra le economie avanzate, secondo l'Unicef, siamo in fondo alla classifica per la qualità della vita dei bambini e degli adolescenti. Precipitiamo anche per numero di laureati tra i 25 e 34 anni, che sono appena il 24 per cento rispetto alla media Osce che vola al 41.
Questi sono alcuni dei dati raccolti da Antonio Galdo, giornalista e scrittore, nel suo libro "Ultimi", appena uscito per Einaudi (pagg.118, euro 16). Raccontano un Paese che corre al contrario, che precipita nelle classifiche internazionali, statistica dopo statistica, anche dove un tempo era al primo posto.
Ad esempio, negli anni Sessanta ci distinguevamo per l'alto numero di brevetti depositati negli Stati Uniti. Oggi siamo un Paese che spreca se stesso. In Europa, in tema di appalti, abbiamo realizzato il capolavoro della minima efficienza per la massima corruzione. E avanti così, di male in peggio.
Antonio Galdo, è un quadro sconfortante quello che emerge mettendo in fila tutte le statistiche che condannano il nostro Paese, dall'istruzione all'economia, dalla sanità alla giustizia. Com'è possibile uscirne?
«Questo libro può essere considerato una sorta di agenda di governo, indica il percorso che dobbiamo fare per risollevarci e allinearci agli standard europei. Bisogna smettere di invocare grandi riforme e operare chirurgicamente, con tagli mirati, non lineari. Dobbiamo guardare alle eccellenze dell'Italia, come il Policlinico Sant'Orsola di Bologna, dove, senza aspettare né ministri né commissari, è stata fatta un'ottima spending review. Peccato però che il sistema sanitario italiano assomigli più a quello della Campania: la Corte dei Conti ha segnalato che a Napoli in un solo anno sono stati nominati millecinquecento primari inutili».
Secondo lei, perché non riusciamo a imparare dalle nostre stesse eccellenze e ci allineiamo, invece, agli standard peggiori?
«Scontiamo un vizio d'origine, un appiattimento, non siamo capaci di riconoscere le qualità, i meriti e le competenze. In questo modo abbiamo creato la società più classista del mondo occidentale, dove chi ha relazioni e conoscenze sa in quale ospedale è meglio curarsi, in quale scuola mandare i figli e addirittura in che sezione ci sono buoni professori. Per chi non ha queste relazioni, un ricovero o un'iscrizione a scuola è una giocata al lotto: può andare bene oppure molto male».
Pensa che la riforma della Buona scuola potrebbe dare il via a un'inversione di tendenza, iniziando a valorizzare i risultati migliori?
«Per ora ho visto solo un'infornata di insegnanti precari stabilizzati. Il resto mi sembra ancora fluido. Il governo si è vantato di aver introdotto una quota per premiare i più meritevoli, ma restiamo indietro. In Europa mediamente un terzo dello stipendio di un insegnante varia a seconda dei risultati ottenuti. I tantissimi bravi docenti italiani dovrebbero ribellarsi alla schiavitù del tutto a tutti, dell'aumento dello stipendio solo per anzianità e mai in base alla qualità del lavoro svolto: è questo che li rende più poveri e frustrati».
Leggendo il suo libro, ci si chiede com'è possibile che un tempo fossimo primi. Lei cosa ne pensa?
Avevamo una grande energia vitale, una voglia di riscatto e un'idea di futuro. Oggi, dopo due anni di governo, non ho ancora capito che idea di paese abbia Renzi. Nel dopoguerra, è vero, il boom economico è stato costruito sulle risorse individuali, sulla fatica dei singoli, sulla voglia dell'artigiano di diventare un industriale, come Del Vecchio, il fondatore di Luxottica. Attorno, però, c'era un Paese che mangiava il futuro. Adesso siamo paralizzati, preoccupati solo di difendere il benessere conquistato in passato. Nel Dopoguerra, poi, abbiamo avuto una classe dirigente preparata e ambiziosa, in tutti i settori, anche nei partiti. Allora non importava se eri nato a Firenze o ad Arezzo, contavano le tue capacità».
E si legge pochissimo...
«Vede, noi giornalisti e scrittori facciamo un grande sforzo per avvicinare i giovani alla lettura ma, analizzando le statistiche, si scopre che a non leggere, in Italia, sono proprio i signori della classe dirigente. Questo fa capire l'impoverimento culturale e l'incapacità di progettare il futuro».
Lei sottolinea che a pesare, nella ripresa dell'Italia, è soprattutto il divario tra Nord e Sud: anche questo gap è aumentato negli ultimi vent'anni?
«Sì, la prova è che oggi il Mezzogiorno è vittima di un'emigrazione che non si era mai vista, neanche tra le due guerre mondiali. Il Sud soffre della caduta verticale degli investimenti, sia pubblici sia privati. E lo Stato, se investe, lo fa male, basti pensare agli eterni cantieri della Salerno - Reggio Calabria, che Renzi annuncia di inaugurare in dicembre. Credo che il guaio del Meridione sia di non avere più una rappresentanza politica: chi sono i politici che portano a Roma le sue istanze? Il Sud è diventato il deserto nazionale, ma senza la sua ripresa non ci sarà mai una vera ripartenza del paese. A dirlo è la Banca d'Italia».
Lei dimostra che non è solo questione di risorse...
«Certo, il punto è lo spreco. Va messa in conto la corruzione, che, secondo le statistiche, rappresenta circa il 20 per cento degli sprechi. È vero, sono diminuiti gli investimenti nella scuola, nell'università, nella sanità, ma il nostro livello di spesa è allineato a quello degli altri paesi europei. Sono i risultati che mancano. Lo Stato spende molto e male. Guardando i numeri, si scopre che se c'è un settore dove si è tagliato davvero, è quello della spesa per le famiglie. Proprio dove tutti i governi dicono di voler investire, si è passati dai 2,5 miliardi del 2009 a meno di un terzo oggi».
Così sprechiamo grandi opportunità.
«E risorse umane, bellezze storiche, artistiche, culturali, naturali. Per ripartire, l'Italia dovrebbe smetterla di buttare via il suo patrimonio. Non a caso la mia ultima, appassionante, scommessa professionale, è il sito web nonsprecare.it.».
Una delle ragioni per cui non si riescono ad attirare investimenti esteri sono i tempi della giustizia...
«Uno straniero non verrà mai a investire in un paese dove, per farsi riconoscere un credito da un tribunale, c'è bisogno almeno di tre anni di udienze e non c'è certezza della pena. Eppure a Torino, Mario Barbuto, da presidente del Tribunale, è riuscito a far funzionare il palazzo nei tempi di Berlino e Londra. Oggi diversi Paesi europei stanno pensando di adottare quello che ormai è conosciuto come il "metodo Barbuto". Lui, intanto, ha accettato l'invito di Renzi ed è al lavoro al ministero della Giustizia per diffondere a tutti i tribunali italiani questa buona prassi. Ma, al momento, una delle maggiori difficoltà è la resistenza del Csm. E il rischio è di veder sprecata l'ennesima eccellenza italiana».
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