Lo sloveno ufficiale e la lingua sul confine espressione di identità sempre più multiple

l’analisi
CRISTINA BENUSSI
Microcosmo di un possibile modello europeo, il Friuli Venezia Giulia, area plurilingue com'è, ancora una volta ha sollecitato analisi sulle dinamiche tra le comunità minoritarie e la realtà maggioritaria. Matejka Grgič, Marianna Kosic e Susanna Pertot, in collaborazione con lo Slori (Slovenski raziskovalni inštitut) e con la Prefazione di Fabiana Fusco, hanno pubblicato infatti per Aracne “Da sistema a simbolo. La lingua slovena in Italia tra linguistica, sociologia e psicologia” (pagine 159, euro 11). Attraverso i modelli interpretativi proposti dalle tre discipline le studiose concordano nel rilevare vistosi mutamenti nell'uso dello sloveno, tali da modificare anche le scelte identitarie di una comunità regionale che non sembra riconoscersi in un'unità compatta. Nell'area triestina, ad esempio, gli sloveni si definiscono zamejci, sloveni d'oltre confine, dunque parlanti una lingua diversa da quella della matična domovina, la madrepatria. È evidente che la loro parlata sia stata condizionata, nei primi anni del dopoguerra, dalla presenza di un confine che ha spezzato il continuum linguistico, per cui gli appartenenti alla minoranza hanno finito per elaborare tratti autonomi nel lessico e nella fonologia rispetto a quelli ricorrenti in Slovenia. Il loro comportamento linguistico infatti ha a lungo oscillato tra localismo tradizionale, forme dialettali e naturale integrazione socioculturale nei confronti dell'italiano. Fermo restando che in regione dichiaratamente robusta è la tutela ufficiale della loro lingua, le comunità si trovano a vivere e a lavorare in un ambiente italiano, e dunque l'uso della lingua madre, o co-lingua materna nel caso in cui uno dei genitori sia italiano, è circoscritto all'ambito domestico e in genere alla vita di paese nei centri dove il loro insediamento; ma esiste anche un'altra lingua, quella parlata o scritta in occasione di eventi pubblici, nella scuola, sui posti di lavoro e all'interno delle istituzioni slovene del territorio. Da quando la Slovenia è entrata nella Ue la sua lingua ha suscitato interesse negli italofoni, che hanno cominciato a studiarla, ma nella maggior parte dei casi raggiungendo solo il livello base, per cui l'idioma di contatto tra maggioranza e minoranza rimane quella italiana. Puntuali analisi delle modalità con cui si è o si diventa bilingui, con i vantaggi e gli svantaggi che questa condizione comporta, mostrano la complessità delle pratiche che, partendo dagli elementi a disposizione della comunità dei parlanti, generano usi e profili diversi nella scelta di una lingua che non è affatto monolitica. Così nei territori periferici, come quelli a ridosso del confine italo-sloveno, sul Carso, si sarebbe sviluppato un dialetto, utilizzato in tutte le situazioni comunicative locali, che col tempo avrebbe provocato nei parlanti un senso d'inferiorità, in quanto considerato il risultato di un fenomeno di erosione e di folklorizzazione linguistica. C'è dunque una dicotomia tra il valore, l'uso e la percezione del dialetto locale rispetto al knjižni jezik, la lingua nazionale standard che si usa a scuola e nelle situazioni di comunicazione ufficiale. È nei centri urbani, dunque, che si forma quella "polifonia linguistica" in cui confluiscono più idiomi, registri e varianti nelle prassi comunicative dei parlanti. E si tratta di una condizione che porta a una simultanea presenza in ognuno di più voci da dover calibrare nell'ambito di strategie comunicative che obbligano a riconfigurare i propri repertori. Ma se il dialetto viene considerato idealmente puro e autentico, l'altro linguaggio si scopre formale, altamente codificato, quasi artificioso.
Certo, il rapporto tra città e campagna è stato dinamico, soprattutto negli ultimi decenni, ma qualche difficoltà permane se è avvertita una certa diversità, per esempio nei bambini che frequentano scuole slovene, tra l'ambito linguistico in cui si parla di argomenti previsti dai libri di testo e la lingua d'uso familiare ed emozionale: in molti casi a supplire qualche vuoto aiuta la lingua di contatto, cioè l'italiano. Il rischio è che, non essendoci una necessità stringente di usare la lingua minoritaria, si produca un fenomeno di automarginalizzazione, con il risultato di far perdere ulteriore terreno al proprio idioma, quale che sia. I saggi, di carattere prevalentemente teorico, non rinunciano infatti a delineare, sottotraccia, una storia dell'evoluzione linguistica della comunità autoctona slovena, mostrando come le scelte identitarie si svincolino sempre di più dagli ancoraggi territoriali, culturali, etnici del passato, diventando più complesse e fluide, particolarmente nell'ultima generazione, la cosiddetta "I": la globalizzazione, facilitando la mobilità e velocizzando gli spostamenti, fisici e simbolico-psicologici, è spesso legata alla cosiddetta de-localizzazione da luoghi specifici e familiari, e può produrre spaesamento. Quindi spinge alla ricerca di nuovi ancoraggi e modelli relazionali, per adattarsi al presente, riscoprendo così la molteplicità e la multidimensionalità dell'identità individuale e dell'appartenenza collettiva. Sembra essere proprio questa la strategia più utile a garantire il benessere e l'integrazione, fermo restando che, nel caso dei giovani sloveni, la propria appartenenza minoritaria è comunque percepita come valore aggiunto. —
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