L’ultima musa di Hemingway
Quando lei lo incontrò per la prima volta nel novembre del 1948 non sapeva nemmeno chi fosse. Hemingway stava tornando a bordo della sua lussuosa Buick decapottabile - che si era portato da Cuba legata alla prua del piroscafo “Jagiello” -, da un giro fra i luoghi dove aveva combattuto nella Grande Guerra. Al volante della Buick c’era il fido autista Girardengo. L’idea era di scendere verso il Friuli e raggiungere Carlo, il maggiore dei fratelli Kechler, per poi andare insieme a San Gaetano da Nanuk, figlio di Raimondo Franchetti, e quindi partecipare con lui a una battuta di caccia alle anatre nella riserva dei Franchetti. Il gruppo doveva però fermarsi a Latisana a prendere un’amica di Nanuk, Adriana Ivancich, invitata ad assistere alla caccia. «Adriana li aspettava all’incrocio del paese. Era lì da ore, completamente bagnata dalla pioggia. Hemingway era seduto davanti, accanto a Girardengo. Adriana si sistemò nel sedile posteriore vicino a Carlo. Non aveva mai visto un’automobile così lussuosa. Carlo le presentò Hemingway ma lei non sembrava sapere chi fosse. Hemingway allora si scusò per il ritardo e si girò per offrirle un sorso di whiskey perché si riscaldasse. Adriana aveva appena diciotto anni, capelli corvini, due occhi scuri, belle gambe e una vita snella. Sorrise e rifiutò con garbo il flacone: non beveva alcolici».
Fu così che si conobbero Ernest Hemingway, ricco e famoso scrittore sulla soglia dei cinquanta e allora in crisi creativa, e Adriana Ivancich, nobile rampolla della Venezia bene e di antica origine lussiniana. E fu così che ebbe inizio una delle più sofferte e scandalose storie d’amore di ogni biografia letteraria: Hemingway alla fine, dopo un lento scivolare nelle depressione, si suicidò sparandosi con il fucile nel luglio del 1961, mentre Adriana Ivancich morirà, anche lei suicida, nel marzo del 1983, impiccandosi, a 53 anni, nella sua tenuta in località Giardino, in provincia di Grosseto.
Sulla vicenda sono stati scritti diversi libri, a cominciare dall’autobiografia della stessa Adriana, ma adesso Andrea di Robilant con “Autunno a Venezia - Hemingway e l’ultima musa” (Corbaccio, pagg. 266, euro 19,90) ricostruisce con sorprendente esattezza e ricchezza di inediti dettagli tutta la storia, seguendo passo passo protagonisti e comprimari negli anni in cui Adriana fu per Hemingway musa ispiratrice non solo per il romanzo calcato sul loro amore, “Di là dal fiume e tra gli alberi” - che in Italia uscirà solo nel 1965 per non creare problemi alla giovane - ma anche il “Vecchio e il mare”, che portò Hemingway a vincere il Premio Nobel. Di Robilant, che conobbe personalmente Adriana quand’era ragazzo essendo pronipote di Carlo di Robilant, «compagno di bevute di Hemingway», ha avuto l’opportunità non solo di leggere tutte le biografie e i memoriali possibili - dalle memorie della moglie di Hemingway, Mary Welsh, a quelle dei domestici della finca cubana - ma anche le lettere tra Hemingway e Adriana, conservate alla Kennedy Library di Boston, carteggio che copre l’arco di tempo dal 1948 al 1956. Ne emerge un affresco ampio, articolato, dell’ultima stagione di Mister Papa, in un caleidoscopico susseguirsi di relazioni, passioni, viaggi, dispute editoriali, colossali bevute, sullo sfondo di un nord est d’Italia - da Venezia a Cortina - avviato di corsa verso il boom economico del Dopoguerra.
Pur nel rigore della trattazione saggistica, grazie alla pluralità dei punti vista e all’attenzione per il dettaglio, di Robilant riesce a portare il lettore nel cuore delle personalità di Hemingway e Adriana, gettando luce nei meandri di un rapporto fortissimo e irrisolto. Senza tralasciare il laboratorio dello scrittore, là dove le fragilità dell’uomo si nutrono e si curano di sentimenti travolgenti, e la scrittura diventa l’unica cura all’insensatezza del mondo: «Da quando Adriana aveva lasciato Cuba, Hemingway aveva trovato consolazione nella scrittura. (...) Era per Adriana, ripeteva a se stesso e agli altri, che cercava di scrivere al meglio delle sue possibilità. (...) Come disse ad Al Horwits, che nel frattempo era diventato il suo agente a Los Angeles, le parole gli venivano così facilmente che gli sembrava di scrivere cose che aveva già letto».
È questa ricerca attorno al «cuore maledetto» dello scrittore il pregio maggiore - ma certo non l’unico - di un saggio che coinvolge ed emoziona più e meglio di un romanzo.
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