Makhmalbaf racconta quel divino despota che finisce all’inferno

VENEZIA. Dopo un esilio londinese di cinque anni, durante il quale ha realizzato documentari, l'iraniano Mohsen Makhmalbaf affronta con una storia diretta, anche se immaginaria e simbolica, il tema...
Di Roberto Pugliese
Iranian film director Mohsen Makhmalbaf and Georgian actor/cast member Dachi Orvelashvili (L) pose during a photocall for the movie 'The President', during the 71th annual Venice Film Festival at the Lido in Venice, Italy, 27 August 2014. The movie is presented in the Orizzonti section at the festival that runs from 27 August to 06 September. ANSA/ETTORE FERRARI
Iranian film director Mohsen Makhmalbaf and Georgian actor/cast member Dachi Orvelashvili (L) pose during a photocall for the movie 'The President', during the 71th annual Venice Film Festival at the Lido in Venice, Italy, 27 August 2014. The movie is presented in the Orizzonti section at the festival that runs from 27 August to 06 September. ANSA/ETTORE FERRARI

VENEZIA. Dopo un esilio londinese di cinque anni, durante il quale ha realizzato documentari, l'iraniano Mohsen Makhmalbaf affronta con una storia diretta, anche se immaginaria e simbolica, il tema del Potere e della sua caduta rovinosa. Questo è "The President", scelto per inaugurare Orizzonti: dove il presidente di cui al titolo è quello di una qualsiasi delle microdittature caucasiche che si estendono fra Mar Caspio e Mar Nero il quale, deposto da un colpo di stato e abbandonato in fretta e furia dalla propria famiglia, si trova a dover vagare in incognito, insieme al nipotino di cinque anni, a stretto contatto con quella popolazione che fino all'altro ieri ha tenuto schiacciata sotto il tallone.

L'argomento è di quelli che scottano, visto quel che è successo negli ultimi anni e sta succedendo in queste settimane fra Medio Oriente e Ucraina; e l'interrogativo che il regista di "Viaggio a Kandahar" sembra volersi porre è quanto e come la caduta di una tirannia possa innescare quella spirale di estremismo, odio e di violenza destinata a travolgere qualsiasi aspirazione alla democrazia. Un'occhiata alla Libia e all'Iraq basta per convincersi che il quesito è aspro, e legittimo. Ma Makhmalbaf guarda oltre: se spesso al cinema i dittatori, quantunque tragici o sanguinari, sembrano sopraffatti dal ridicolo (Chaplin e Sacha Baron Cohen insegnano), il suo presidente è un despota, un dio improvvisamente decaduto e obbligato a mescolarsi con la povertà e l'ordinarietà del suo popolo, Un popolo che non conosce, le cui storie e i cui problemi è ora costretto a considerare ed ascoltare.

Se Makhmalbaf utilizza l'espediente narrativo di un viaggio metaforico e gira il suo film in lingua georgiana, la sua compatriota Rakhshan Banietemad ha scelto invece una strada molto più impervia: quella di girare in Iran, con protagonisti persone comuni del paese, rivolgendosi prima di tutto al pubblico interno. Per questo il suo "Storie", oggi in competizione ufficiale, ha avuto una gestazione lunga otto anni, passati a fronteggiare la commissione di censura, l'ostilità, le minacce del regime di Ahmadinejad. «Non volevo - afferma la sessantenne regista di Teheran - fare un film in modo clandestino, perché è importante poter mostrare il mio film prima di tutto agli spettatori iraniani». Da qui l'inizio di una serie di estenuanti discussioni e richieste di autorizzazione alla commissione, culminate in un paradossale nullaosta: «Non valido per le proiezioni pubbliche in sala. Non valido per i festival nazionali e internazionali, non valido per la distribuzione in dvd».

Eppure, dice la cineasta, «il cinema è cinema, e rimarrà sempre vivo».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo