Manu Chao, la pace canta all’ex campo carri

TRIESTE. «Buona sera, buena noche Trieste». Sono le 22 in punto quando Manu Chao inizia a scaldare le oltre 13mila anime che erano già in pieno climax fin da metà pomeriggio, ennesimo eroe di un’estate indimenticabile, a queste latitudini. L’area dell’ex campo carri armati di Borgo Grotta Gigante, da alcuni anni brillantemente recuperata, in maniera quasi simbolica, alla musica, è totalmente stipata, con un colpo d’occhio incredibile. No, le frontiere non esistono più, e con esse la necessità di schierare truppe in quell’area, le diversità magari sì. C’è il problema dell’immigrazione clandestina, dei paesi poveri che arrancano sempre di più e dei paesi ricchi costretti a dimostrarsi sempre più spietati per reggere, delle leggi del mercato e di chi quelle leggi vorrebbe farle a pezzi, dei G8 e del resto dei G. Tutti temi di cui Manu Chao è diventato il cantore mondiale. Icona dei disobbedienti, sciamano del Terzo mondo, portavoce dei senza niente ha fatto della sua musica un patchwork cui è difficile affibbiare un’etichetta precisa. Quando, ormai più di qualche decennio fa, aveva portato alla ribalta mondiale i suoi Mano Negra, qualche bello spirito aveva coniato il termine patchanka, che voleva indicare l’estrema, totale contaminazione che uniforma la sua musica.
Nato a Parigi da genitori spagnoli sfuggiti alla repressione franchista, José Manuel Thomas Arthur Chao da qualche anno vive a Barcellona ed è un vero figlio del mondo. Sul palco alterna con scioltezza spagnolo, galiziano, francese, arabo, portoghese, italiano, inglese e wolof. E i ritmi che queste tradizioni musicali comportano. Nel tour attuale, “La Ventura”, partito dalla Turchia un paio di settimane fa, alterna classici dal suo ormai sterminato repertorio a omaggi a Bob Marley.
La scaletta triestina non fa eccezione. Ben assecondato sul palco da un ensemble che vede nel solo, storico bassista Jean Michel Gambeat, il superstite del maxi-gruppo di Radio Bemba, nel chitarrista Madjid Fahem un abile tessitore di frasi e background e nel batterista David Bourguignon una macchina ritmica a fasi alternate, ora scatenato, ora intimista, Manu conquista l’eterogenea platea fin dalle prime note. Centri sociali e amanti del rock tout court, cultori della canzone latina e rasta si stipano come sardine sotto lo stage, dando vita a una muraglia umana che si sposta e sembra infrangersi sulla struttura metallica come le onde, in una “ola” quasi infinita. Fin dalle prima note di “Mr Bobby” con cui apre tradizionalmente l’esibizione, il pubblico pende dalle sue labbra. Anche se le prima canzoni non sono tra le più note (“Dia luna... dia pena”, “Por el suelo”, “Tadibobeira”) l’entusiasmo è schietto e ben manifestato, anche se il boato più grande accoglie il suo primo grande successo, quella “Clandestino” che parla di tutti i migranti del mondo, quelli che in Messico aspettano il gran balzo verso gli Usa (più tardi citati anche in “Bienvenida a Tijuana”), quelli che tentano il salto dal Marocco verso la Spagna, i nostri disperati di Lampedusa. È un fine conoscitore del sociale ma anche del calcio, Manu, ed ecco la parabola dell’esistenza di Diego Armando Maradona rivissuta ne “La vida tombola”, prima del momento di relax con “La primavera” e “Que paso que paso”. Ma non dimentica né chi è né da dove arriva il suo successo, il cantante. E alla fine del concerto si saranno materializzate ben quattro canzoni dei Mano Negra, dalla supertrasmessa “King Kong Five” che trasmette nella massa una sorta di senso di deja vu a “Machine Gun”, passando per l’”hit” maggiore, “Mala Vida” , e per “Sidi H. Bibi”.
Alterna momenti di grande “tiro” ad altri di totale, quasi nostalgica riflessione, Manu Chao. Capita con “L’hiver est là” ma anche con la sempre splendida “Minha maconha” prima di ripiombare in piena festa pagana con quella “Rumba de Barcelona” che trasforma l’area intera in una grande sala di flamenco e arrivare, dopo più di due ore e mezza e ben oltre la mezzanotte, con in sequenza “Senor Matanza”, “Vakaloka”, “Tesma” e “El Hoyo” alla conclusione di un concerto epico quanto intenso. Che non finisce lì, perché dopo i friulani Playa Desnuda, la cui sezione fiati è stata invitata sul palco da Manu per tre pezzi, e gli sloveni Elvis Jackson spetta ai triestini Macako Jump affrontare l’after hours e portare le migliaia di fans ancora gasati alle ore piccole, evento nell’evento.
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