Marco Risi racconta il padre Dino «Era medico, attento alla mente umana»



È passato nelle nostre zone per girare, a Basovizza, gli esterni di "Soldati - 365 all'alba", film "spartiacque" che l'ha fatto svoltare verso il cinema d'impegno civile. Potrebbe tornare a primavera per il nuovo "Il punto di rugiada", produzione Fandango di Domenico Procacci e collaborazione in sceneggiatura dello scrittore pordenonese Enrico Galiano.

Oggi certamente sarà a Trieste, al festival "Barcolana – Un mare di racconti": oltre che regista apprezzato e sensibile, Marco Risi è infatti autore di "Forte respiro rapido" (Mondadori), il libro che presenterà alle 18 in piazza Verdi in un incontro organizzato in collaborazione con il Premio Sergio Amidei di Gorizia.

"Mery per sempre", "Ragazzi fuori" - dittico di rara potenza sul mondo carcerario minorile -, "Il muro di gomma" sulla strage di Ustica. E poi, ancora, "Il branco”, e "Fortapàsc" sul giornalista Siani giustiziato dalla camorra: questi alcuni dei titoli della filmografia di Risi jr, che sembra non aver avuto paura di confrontarsi con il mito ingombrante di suo padre. È infatti il rapporto con il grande Dino Risi il perno di un libro che, però, riesce a superare la facile aneddotica per tratteggiarne invece un ritratto a tutto tondo. Tra le tante curiosità sul maestro della commedia all'italiana svelate, una che non può passare inosservata nella città dell'esperienza basagliana: la specializzazione, lasciata a metà, in psichiatria. «Si laureò in medicina - racconta Marco Risi - seguendo le orme del padre, che fu anche medico di Mussolini, Toscanini e di tanti artisti della Scala. Fece poi un breve periodo di apprendistato nei manicomi: non a Trieste, credo a Volterra. Lì capì che era molto meglio fare cinema. È sempre stato attento alla mente umana, anche se poi l'ha dimostrato in altri modi. Sapeva ben interpretare atteggiamenti, silenzi, espressioni: quegli studi l'hanno sicuramente aiutato nel suo mestiere».

«Se mio padre ci portava sul set?- continua -. Non ci teneva a renderci partecipi anche se qualche volta è successo, come quando venne a trovarci a casa Alberto Sordi. Non si andava sul set: gli rompeva un po' le scatole, non voleva infiltrazioni familiari che portassero ritardi nelle riprese. Mia madre non credo ci sia mai andata, io sporadiche volte: la prima 11enne, nel '62, per “La marcia su Roma”».

"Forte respiro rapido" è cinema e vita insieme: c'è "Il Sorpasso" inteso come il film della svolta, «non nel rapporto tra me e lui ma nella percezione che gli altri avevano di lui», c'è il famoso residence «dove doveva stare due settimane: ci è rimasto 30 anni», ci sono momenti gustosi e persino esilaranti - la somiglianza con l'Avvocato e gli scherzi che padre e figlio inscenavano - come anche un Vittorio Gassman inedito, ben diverso dall'immagine irruenta e fanfarona dello schermo. «Era, invece, una persona molto fragile, delicata, timida. Stavamo per fare un film insieme: m'incuriosiva quell'immagine pubblica che dava di sé mentre nascondeva una fragilità e una sensibilità che l'ha portato alla depressione. Lui era preoccupato di parlarne ma poi si era convinto: abbiamo girato una scena al teatro di Todi, dove recitando l'Inferno si bloccava. "Sono finito" ripeteva. Tre le macchine da presa nascoste puntate su di lui: il pubblico non ci capì nulla. Il sipario si chiudeva e da lì partiva tutto il film. Sarebbe stato un bel ritratto simil-vero: ma poi si è ammalato e non c'è stato più il tempo». —

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