Marco Rodari il clown scrittore che porta il sorriso ai bimbi in guerra

Anche noto con il nome d’arte Claun il Pimpa, è il vincitore della seconda edizione del Premio Trieste-Diritto al Dialogo



Alle volte il nome racchiude il destino di un uomo. Se poi le coincidenze sono due diventa una prova. Claun il Pimpa è il nome d’arte di Marco Rodari, che quest’anno sarà insignito del premio internazionale Trieste-Diritto al Dialogo, giunto alla seconda edizione e gli verrà consegnato nel corso di una cerimonia nell’ambito della prossima Festa della Letteratura e della Poesia. Istituito dall’Associazione Poesia e Solidarietà, in collaborazione con il Centro internazionale di studi e documentazione per la cultura giovanile, l’anno passato era stato assegnato alla scrittrice turca Asli Erdogan. La cerimonia di premiazione, così come la manifestazione, si terranno a Trieste in data da definire, non appena terminata l’emergenza coronavirus.

Rodari come Gianni, lo scrittore specializzato in letteratura per l’infanzia di cui lo scorso anno è stato celebrato il centenario dalla nascita, e Pimpa, come la cagnolina a pois rossi che Altan dedicò alla figlia nel 1975. Invece per Marco, che guarda caso viene alla luce lo stesso anno della Pimpa, in verità si tratta della genealogia di soprannomi di famiglia: il nonno era musicista e artista nel paese natio di Leggiuno, in provincia di Varese. Era detto Pin; il padre raddoppiò con Pimpin; il Pimpa chiude la catena, dimostrazione incarnata che “per fare tutto ci vuole un fiore”. Perché Marco da oltre 15 anni lavora nelle zone di guerra del Medio Oriente con progetti di clown-terapia per i bambini «a rappresentare - sostiene nella motivazione del premio la professoressa Gabriella Valera, presidente dell’Associazione - il senso profondo della sua missione: affermare i valori del linguaggio che è sempre “poetico” nel suo più profondo esistere, e dichiarare il diritto al dialogo come diritto fondamentale umano». E nel dialogo rientrano il sorriso e la risata, il primo contatto che un bebé stabilisce con il mondo esterno.

Come riesce lei a restituire il sorriso a chi lo ha perso?

«I bambini ridono di norma circa 300 volte al giorno, contro le 20 di un adulto. Sono stato in luoghi dove i bambini non ridono. Allora bisogna entrare nella realtà di chi ha vissuto gravi traumi in punta di piedi, stabilendo un contatto di fiducia che abbatta le resistenze erette per difendersi dalla sofferenza. Talvolta hanno spento in sé la curiosità, che è il motore primo del lasciarsi andare, come se portassero sulle spalle il peso di mille anni. È terribile».

Cosa contiene il suo armamentario di clown?

«Viaggio leggero, una valigia di cartone e poche cose di semplice tradizione: un cappellino, un naso rosso, un mazzo di fiori di carta, un bastone che si spezza a comando e così via. Non posso permettermi di più recitando 3 o 4 volte al giorno, generalmente nelle scuole, per mille bambini circa alla volta. In certe occasioni mi sono trovato a mani vuote, ma me la sono cavata con la mimica e l’improvvisazione. Un sassolino che sparisce per magia fa riapparire una risata tra le macerie».

Da Gaza a Mosul, dalle zone difficili dell’Italia, all’Iraq. Cosa cambia?

«I bambini sono tutti uguali, ciò che fa ridere è universale e senza distinzioni di cultura. Una situazione percepita come comica unisce tutti con un abbraccio ristoratore. Si tratta di impostare una narrazione fatta di gesti e suoni alla portata di tutti, con piccole deviazioni e inciampi fino all’apoteosi finale».

Che cosa suscita più risate?

«Spesso per i miei spettacoli, che durano circa 20 minuti, mi avvalgo dell’aiuto degli insegnanti. Ecco, l’adulto che sbaglia o che fallisce nell’impresa che poi riesce al clown, e meglio ancora al bambino - e si può coinvolgerlo solo se si tratta di una recita non troppo affollata - suscita un’allegria incontenibile. È una dinamica ben nota: l’incongruità tra l’atteso e l’inatteso provoca l’effetto a sorpresa e scatena il divertimento».

Per divertire bisogna divertirsi per primi. Quando ha scoperto questa vocazione?

«Prestissimo. A tre anni ero il mattatore delle recite all’asilo. A 12-13 ero in grado di tenere viva l’attenzione di una decina di bambini di poco più piccoli. A 18 il mio destino era felicemente segnato. Non ho un diploma di circense, ma ho seguito i corsi di due maestri, Margherito, con il suo progetto di clown-terapia negli ospedali, e il Mago Sales più improntato sullo spettacolo. E, se è vero che non si finisce mai d’imparare, è anche vero che insegno ciò che so. A Gaza è nato così un piccolo gruppo di colleghi, ma che io sappia è l’unico».

Come si svolge la sua vita in zone di guerra?

«Mi sposto in auto o talvolta con blindati, sempre in compagnia di persone che conosco molto bene, circa una decina, perché i rapimenti sono all’angolo, come le pallottole. All’estero lavoro cinque o sei mesi di seguito e ammetto che è molto faticoso e bisogna godere di una salute di ferro. Ciò che più mi pesa è la restrizione della libertà personale, ritornare la sera sotto scorta e trovare la casa fredda, senza acqua, senza elettricità e una cena spesso parca. In Medio Oriente la popolazione è tanto accogliente quanto orgogliosa, ma non è possibile fare l’ospite, per evidenti motivi. Bisogna però prima superare il sospetto, dimostrare di non essere a caccia di scoop, di non voler lucrare sulle loro disgrazie e si tratta di affrontare scalino per scalino una salita che alle volte dura anni interi». —



Riproduzione riservata © Il Piccolo