Marcus Ranfo templare dannato

Terza edizione del libro di Elisabetta Rigotti
Di Elisabetta De Dominis

di ELISABETTA DE DOMINIS

Il melone di Trieste non è un melone. I suoi dodici spicchi erano il nutrimento spirituale della medioevale Tergeste. L'alabarda, che lo sormonta, non è un'alabarda ma un giglio, simbolo araldico merovingio.

La scoperta è di Elisabetta Rigotti, che ha dedicato gli ultimi dieci anni a cercare di capire perché Marcus Ranfo, il nobile più potente di Trieste, fosse stato assassinato una notte di settembre del 1313 insieme a figli, nipoti e tutti i suoi seguaci. Con la sua morte finisce l'autonomia della città.

Ma non è l'unica scoperta che aiuta a far luce su questa intricatissima e avvincente storia triestina che non ha nulla da invidiare al "Codice da Vinci". Gli ingredienti ci sono tutti: cavalieri templari, eresia catara, Maria Maddalena, la stirpe merovingia dei rex deus, guelfi e ghibellini, perfino Dante Alighieri... E niente è inventato, perché le prove sono scolpite e tutti i triestini le hanno sotto gli occhi da secoli, benché finora nessuno ci abbia fatto caso. Questo romanzo storico "Damnatio Memoriae. Marcus Ranfo, il templare sepolto dal silenzio" (youcanprint, euro 23,00) è alla terza edizione: l'autrice l'ha ulteriormente arricchito nella parte saggistica con i risultati delle sue ricerche. Il volume verrà presentato domani, alle 17.30, alla Casa della Musica di Trieste in via Capitelli, con letture sceniche degli attori Enzo Succhielli, Beppe de Francesco, Romana Olivo e Laura Premoli.

Nel 924 Ugo di Provenza è incoronato a Pavia re d'Italia e cinque anni dopo beneficia Tergeste di un territorio che si estende fino ad Umago, mettendola direttamente sotto la sua protezione. Come mai?

Trieste è rappresentata per tre secoli da dodici boni homines, una confraternita di famiglie tergestine che amministra in piena autonomia il Comune e il cui simbolo, il melone, riproduce il copricapo di un vescovo cataro. Dodici sono i bons hommes, i vescovi della religione catara del re provenzale. E dodici le sfere scolpite sul pozzo del castello di San Servolo, che riporta sull'altro lato lo stemma dei Ranfo. Stemma raffigurante un leone rampante, simbolo araldico delle famiglie europee dei rex deus, legate dal segreto del sacro graal, il sangue reale che attesta la comune discendenza da Salomone.

Il filo conduttore tra catari e templari era il conseguimento della sophia, la conoscenza intesa come ricerca spirituale, anziché il perseguimento della salvezza indicata dalla Chiesa. Ma che questi re vantassero una discendenza divina dall'unione della Maddalena con Gesù era un'eresia intollerabile.

Nel 1234 il patriarca Bertoldo mette sotto processo inquisitorio tutto il Comune per "scandala et errores", distruggendo i Vetera Statuta. Perché? Decifrando l'iscrizione latina alla base del melone, Rigotti individua due parole chiave: "rex" e "deus". Tergeste aveva abbracciato la dottrina catara. Altro indizio: la statuetta della Madonna che proviene dal monastero templare di Grignano è, per Rigotti, la Maddalena perché sul seno reca il melone.

Marcus Reifenberg, italianizzato Ranfo, discendeva dai conti di Diessen, cavalieri bavaresi associati all'ordine del Tempio, perciò si nascondeva sotto un nome che non era il suo. I Ranfo divengono vassalli del Patriarcato di Aquileia e dei conti di Gorizia: in meno di un secolo acquisiscono feudi estesi. A Tergeste Marcus è giudice, ambasciatore e podestà. È troppo ricco e potente sia per il vescovo che per i patrizi delle tredici Casade. Viene denunciato all'Inquisizione, ma non esistono atti di un processo per congiura. Le sue proprietà sono confiscate e la dimora rasa al suolo.

Ma Rigotti individua la sua lapide tombale incassata nel muro di via dei Cavazzeni, in Cavana. C'è scritto in latino: "Diessen tergestino sotto questo sasso riposa". Da questo l'autrice è risalita alle sue origini. Mentre la lapide d'infamia dell'Inquisizione e il portale del palazzo che reca la scritta latina: "Famiglia che qui con Marcus Ranfo volle risiedere", si trovano al museo Capitolino di San Giusto.

La condanna alla "damnatio memoriae" è finita.

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