Mario Perrotta porta in scena tre uomini diversi ma uguali nella difficoltà di fare il padre

La consulenza alla drammaturgia porta la firma di Massimo Recalcati. Il testo è di Mario Perrotta che dal noto psicanalista ha ricevuto spunti e suggestioni per non cadere in luoghi comuni, per sfuggire a eventuali inesattezze. Perrotta è autore ma anche interprete dello spettacolo “In nome del padre”, oggi alle 20.45 al Comunale di Monfalcone per quello che costituisce il primo capitolo di una sua trilogia volta a indagare le famiglie millennial.
Perrotta, di quando è la scrittura del testo?
«Del 2019, dopo tre lunghi colloqui davanti a un bicchiere di vino con Massimo Recalcati al quale ho chiesto una consulenza scientifica sull’argomento. Da lui mi interessava sapere unicamente le storture contemporanee nello svolgimento della funzione paterna. Ho quindi messo assieme ciò che mi ha raccontato in base alla sua esperienza clinica, che poi è quanto ho modo di vedere tutti i giorni fuori dalla scuola di mio figlio, e ho creato queste tre figure di padre. Il testo è sbocciato in nemmeno un mese, perché era parecchio che lo immaginavo».
Ma chi è, per lei, un buon padre?
«Sono d’accordo con Recalcati nell’affermare che padre e madre sono funzioni. Non è detto, quindi, che le debbano necessariamente svolgere i genitori biologici. Si possono invertire i ruoli all’interno di una coppia e, portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, come dice Massimo padre può persino essere un libro. In generale, padre è chi ti offre una nuova lettura dell’esistenza e ti insegna l’ostinazione a vivere nonostante tutto intorno a te. In questo senso, il padre esemplare è quello del romanzo di Cormac McCarthy, “La strada”, che poi è diventato uno splendido film: in un mondo postmoderno, dove tutti si scannano tra loro, questo padre continua a insegnare al figlio il piacere del vivere».
Può sintetizzare le tre figure paterne dello spettacolo?
«Sono tre padri diversi per situazione geografica (un siciliano, un napoletano e un veneto), per estrazione sociale e per condizione economica (un operaio il veneto, un grande giornalista e intellettuale dell’intellighenzia di sinistra il siciliano, un commerciante molto ricco il napoletano). Ma, nonostante queste profonde differenze, sono ugualmente nudi nel compito paterno. Sono di fronte a tre adolescenti, ma vivono nello stesso palazzo. Si conoscono e si invidiano tra loro, non sapendo che sono tutti in grande difficoltà».
“Nel nome del padre” è il titolo di più film, di un lavoro teatrale di Luigi Lunari, di un libro di Gianni Biondillo. Lei come titolo ha scelto “In nome del padre”. Perché?
«Perché “In nome del padre” lascia presagire qualcosa, qualcuno che fa le veci, che si sostituisce al padre, senza riuscirci. Questi tre uomini sono sul palco in nome di chi dovrebbe essere un padre vero».
Da poco ha invece debuttato al Piccolo di Milano, il suo nuovo spettacolo: “Della madre”…
«“In nome del padre” apre una trilogia sulla famiglia. Quest’anno tocca alle madri e nel 2021 ci sarà lo spettacolo sui figli. La madre ha ovviamente scatenato reazioni molto più forti, perché se nel nostro Paese sono tutti felici che i padri vengano messi sotto processo, le mamme italiane sono diretta emanazione della Madonna e ciò basta a renderle intoccabili, a prescindere. Io, invece, le ho toccate, ma sempre con riferimento alle mamme “storte”: ce ne sono tante, ma, per fortuna, non tutte».
E lei che padre è?
«Con mia moglie siamo diventati genitori adottando nostro figlio nel 2013. Che padre sono occorrerebbe chiederlo a lui, ma noto una differenza tra me e la maggioranza dei padri di oggi: io sbaglio come tutti, ma almeno mi faccio molte domande».
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