Marshall McLuhan cinquant’anni fa ipotizzò le fake news
Usciva nel ’68 il saggio “Gli strumenti del comunicare” dove il sociologo già prevedeva il buco nero della Rete

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«Ci stiamo avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui attraverso la tecnologia il processo creativo e di diffusione delle notizie verrà collettivamente esteso all’intera società attraverso i più diversi media in forme ancora sconosciute». Così Marshall McLuhan anticipava l’uso dei social in “Gli strumenti del comunicare”, tra i saggi più celebri dello studioso canadese proposto in Italia, tradotto dal Saggiatore, mezzo secolo fa, nel gennaio 1968. McLuhan era riuscito ad anticipare gli effetti perversi delle fake news, perché, aggiungeva, «non è ormai più possibile mantenere l’atteggiamento neutro e distaccato che sino a poco tempo fa caratterizzava l’uomo occidentale e sono saltate le gerarchie intellettuali che permettono il controllo».
L’anniversario ha riaperto in Europa e negli Stati Uniti la discussione sul valore scientifico delle analisti di un uomo che, ricorda Douglas Coupland introducendo “Understanding McLuhan” (Mit, Boston, 35 dollari), non ha scoperto quali mutamenti percettivi vengono favoriti dalle tecnologie frequentando i laboratori della Nasa o dell’Ibm, ma piuttosto indagando sui classici della letteratura inglese.
Lo testimoniano alcune lettere a lungo inedite e pubblicate solo di recente nelle quali si sofferma sulla fondamentale importanza per lui del periodo trascorso a Cambridge, quando conobbe i testi del modernismo. «Nei mesi di Cambridge – precisa - mi sforzai di comprendere sino in fondo il processo poetico e la sua importanza nell’adattare il lettore al mondo. Il mio studio dei media ha avuto inizio ed è sempre rimasto radicato nelle opere degli scrittori letti allora». Proprio l’idea di «adattare il lettore al mondo» è la bussola che lo ha guidato nel complesso tentativo di interpretare una contemporaneità in perpetuo divenire.
Quando esordì nel 1952 con “La sposa meccanica” nessuno si occupava dei nuovi media e il libro sul passaggio «dall’uomo industriale all’uomo elettrico» apparve ricco di straordinarie intuizioni.
Qualche tempo dopo comparvero i teorici della semiotica e si rafforzò lo stereotipo che lo vedeva “guru della tv” o “alto sacerdote della cultura pop”, paladino di un processo di apertura democratica dei canali dell'informazione. McLuhan fece ben poco per contrastare l’avanzata dei luoghi comuni. Al contrario, era assai disponibile nei confronti delle tv e accettava contratti di consulenza da governi e multinazionali. A lui, del resto, si affidò il premier canadese Pierre Troudeau per avere suggerimenti su come affinare la propria immagine pubblica, a lui si rivolsero i dirigenti della Ford, della General Electrics o della Bell Atlantic per consigli o seminari di aggiornamenti, spesso restando disorientati per l’esito degli incontri. Non è infatti difficile immaginare lo stupore dei manager Ford che lo pagarono profumatamente solo per sentirsi dire che l'epoca delle automobili era finita e che si doveva investire nelle reti di comunicazione. Ancora, è il volto di McLuhan che appare contemporaneamente sulla copertina delle riviste Nesweek e Life, ed è ancora McLuhan che diventa dal 1966 soggetto di un fumetto proposto a lungo dal New Yorker.
Sotto il profilo della notorietà il picco viene raggiunto quando interpreta se stesso nel 1977 in una scena di “Io e Annie” di Woody Allen: lo studioso, in coda al cinema, rimbrotta un ragazzo che cerca di impressionare la sua accompagnatrice citandolo, e gli fa notare senza troppi giri di parole che non ha capito proprio nulla delle sue idee.
A chi lo giudicava un innovatore, McLuhan ripeteva spesso di non aver inventato nulla di nuovo, poiché procedimenti analoghi erano stati teorizzati e impiegati dai simbolisti francesi e da molti narratori del modernismo britannico. «Una delle principali scoperte dei simbolisti - osserva nel 1951 - è stata la concezione del processo conoscitivo inteso come un labirinto dei nostri sensi e delle nostre facoltà la cui ricostruzione fornisce la chiave di tutte le arti e le scienze». Lo studioso canadese era, insomma, dell'avviso che i media fossero in grado di sfruttare simultaneamente tutte le intuizioni elaborate dalla letteratura nel corso dei secoli. Il suo vero obiettivo, pertanto, era mettere a fuoco una storia delle tecniche comunicative, mostrando in qual modo avessero finito per fondersi nel linguaggio pubblicitario, radiofonico e televisivo. Come precisava in una lettera degli anni Settanta a John Polanyi, Nobel per la chimica, non mirava a una sintesi complessiva, ma solo a un quadro di riferimento suscettibile di ulteriori sviluppi. «Personalmente - aggiungeva - trovo le domande più interessanti delle risposte, le indagini più eccitanti dei prodotti. Tutta la mia opera è stata sperimentale, nel senso che ho voluto studiare gli effetti invece delle cause, le percezioni piuttosto che i concetti». Era un obiettivo che aveva ben chiaro sin dal 1951 e a testimoniarlo c’è una lettera inviata a Harold Iunis nella quale, tra l'altro, osserva: «Se la letteratura deve sopravvivere come disciplina scolastica, non solo per pochi, si dovranno trasferire le sue tecniche di percezione e di giudizio ai nuovi media. I nuovi media, che sono già più formativi pedagogicamente di quelli usati in classe, devono essere analizzati e discussi nelle aule se la scuola non vorrà continuare a esistere solo come prigione per gli adolescenti. Credo sia la miglior strategia per far dialogare il presente e il futuro con il passato».
Almeno un paio di indagini apparse negli ultimi mesi negli Usa e in Gran Bretagna dimostrano che McLuhan non si sbagliava affatto affermando che «il medium è il messaggio». È grazie a questa logica, infatti, che stanno dilagando nell’intero pianeta le fake news o “post-verità”, diventate arma di persuasione politica. Lo conferma una ricerca dell’università di Stanford, condotta in dodici Stati americani, coinvolgendo migliaia di studenti con diversi livelli di istruzione e di reddito familiare. Scrive nel report finale Sam Winebeurg, coordinatore dell’indagine: «Molti danno per scontato che i giovani, a loro agio con i nuovi media, siano anche sagaci e lucidi nel valutarne i contenuti. Purtroppo non è affatto così». Con una preoccupante conseguenza: la democrazia è minacciata dalla facilità con cui la disinformazione è tollerata, si diffonde e fiorisce. Del resto nel Regno Unito milioni di persone hanno votato per Brexit dopo aver prestato fede alle post-verità diffuse da Nigel Farage e Boris Johnson in materia di immigrazione. L’istituto Ipsos Mori ha documentato che la maggioranza dei sudditi della regina ha scelto il divorzio da Bruxelles perché persuasa dalle fake news in materia diffuse da Nigel Farage e ampiamente riprese dai tabloid.
Quali possono essere le ricadute dell’utilizzo delle post-verità nel prossimo futuro? Paul Miller, in un report proposto in autunno sempre dalla società inglese Demos (The rise of network campaigning) si dice certo che entro pochi anni un governo occidentale uscente potrebbe venire battuto da forze di opposizione con una campagna condotta per intero attraverso i sociale irrobustita da una dose massiccia di post-verità.
Negli Usa Trump si è assicurato la vittoria applicando in politica la stessa strategia di cui ha parlato in un volume autobiografico sull’arte di fare affari. Dove affermava: «Io assecondo le fantasie della gente. Questa forma di comunicazione la definisco iperbole reale. Si è sempre rivelata una modalità efficacissima di promozione».
Tra “iperbole reale” e “post-verità” la differenza è minima. In società ipermediatizzate, attraversate da flussi di informazioni continue, commenta Miller, la capacità di strutturare una visione politica all’insegna del “verosimile” e dell’irrazionale sta diventando la chiave per la conquista del potere.
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