Mauro Corona: «Racconto la vita degli uomini freddi»

Una favola che diventa epopea di una società umile ma capace di solidarietà su tutto incombe l’ombra del Vajont: «Le ragioni di quella tragedia si ripetono»
Di Roberto Carnero

È una "fiaba nera" sulla tragedia del Vajont il libro di Mauro Corona, “La voce degli uomini freddi” (Mondadori, pagine 240, euro 18,00), che a giugno era entrato in cinquina al premio Campiello in prima votazione con 6 preferenze.

C'è un popolo che vive di stenti in una terra ostile, una terra in cui nevica sempre, anche d'estate, le valanghe incombono dalle giogaie dei monti e le api sono bianche.

E gli uomini hanno la carnagione pallida, il carattere chiuso, le parole congelate in bocca. Però è gente capace di riconoscenza, di solidarietà silenziosa, uomini e donne con un istinto operoso che li fa resistere, anzi pronti a godere dei rari momenti di requie, della bellezza severa del paesaggio, della voce allegra del loro "campo liquido", il torrente che, scorrendo sul fondo della valle, dà impulso a segherie e mulini.

Il torrente è una delle voci di questi uomini freddi solo all'apparenza, dalle vite grame eppure, in qualche modo, felici.

Corona ci ha abituato alle narrazioni corali, alle epopee umili di gente che avanza compatta con le proprie storie senza storia solo perché nessuno ha voluto abbassare l'orecchio al livello del suolo per ascoltarne la voce flebile.

Si tratta di un testo teso ed emotivamente forte, anche se l'autore ha optato per uno stile secco.

Il coinvolgimento in prima persona dello scrittore si spiega comprensibilmente: Corona aveva 13 anni quando il 9 ottobre 1963 straripò il lago artificiale creato dalla diga che sbarrava le acque dell'omonimo torrente, cancellando tre paesi (Longarone, Erto e Casso, in provincia di Pordenone) e determinando la morte di 1917 persone. E lui era lì.

Corona, come mai ha scelto lo stile di una fiaba?

«Ho scelto uno stile fiabesco, perché era l'unico che potevo usare per un simile argomento. Se l'avessi affrontato in maniera più realistica o diretta, avrei finito per cedere all'indignazione, alla rabbia, avrei gridato, urlato, insultato coloro che furono responsabili di quell'immane tragedia e quelli che oggi sono responsabili della sua rimozione. Invece ho scelto un tono dimesso, raccolto, riflessivo, ma forse per questo il mio libro fa ancora più male, perché parla di una comunità a cui è stato tolto tutto e che così è stata costretta al silenzio, a un'impotente rassegnazione».

Chi sono gli "uomini freddi" cui allude il titolo?

«È la gente di quella vallata: un popolo che viveva di stenti in una terra ostile, gente di montagna, chiusa ma tenace e laboriosa, che resisteva alle avversità senza lamentarsi e che reagiva ai problemi quotidiani con caparbia alacrità. Racconto di un popolo di gente forte, che coltivava il fiume come un campo, che dal fiume traeva il proprio sostentamento, poiché l'acqua alimentava le segherie e i mulini, e al quale l'acqua a un certo punto, quando si decise di costruire la diga, fu rubata, scippata, sottratta con la forza brutale di un capitalismo cieco. L'acqua che prima era la loro ragione di vita diventò così la causa di un dramma di morte».

Come ricorda quel giorno?

«Quando avvenne la tragedia, ero a casa, a Erto, poiché abitavamo nella prima contrada sul bordo del lago. Ho ancora nelle orecchie la voce della gente che chiamava e gridava. Mia nonna mi comandò di saltare giù dalla finestra e di fuggire: fu lei a salvarmi. Il rumore della frana e di quell'enorme massa d'acqua era qualcosa di spaventoso. Noi riuscimmo a scappare e fummo ospitati per la notte in alcune case più in alto rispetto al livello della diga. Ricordo la mattina, alle prime luci dell'alba, ai nostri piedi un paesaggio completamente scavato, disossato, tutto giallo del colore del fango, lunare, spettrale».

È un trauma che evidentemente non si può dimenticare. Ma nelle sue parole si coglie, oltre al ricordo della vicenda personale, anche dell'altro, la vis polemica di un'indignazione civile. Sbaglio o è così?

«Non sbaglia affatto. L'anno scorso, in occasione del cinquantesimo anniversario di quello che io non esito a chiamare un genocidio, ci aspettavamo una visita del Presidente della Repubblica, la sua vicinanza, una sua carezza. Invece questo gesto non è giunto. Forse a troppi fa comodo rimuovere, dimenticare, annullare anche la memoria di quanto è accaduto. Si sono sacrificate, sull'altare del dio denaro e del dio profitto, le vite di centinaia di persone».

Abbiamo imparato qualcosa da quel dramma?

«Temo proprio di no, la logica che fu all'origine del disastro del Vajont è la stessa che oggi vedo all'opera in situazioni come il Mose o l'Expo. La storia si ripete: chi ha il potere, chi comanda, chi governa non ha quasi mai a cuore il bene delle persone semplici, di quelli più umili. Questi ultimi continuano a pagare sulla propria pelle le scelte forsennate dei primi. La violenza sui più deboli è una costante, che non è venuta meno nell'Italia odierna, anche se ci riempiamo la bocca di parole come uguaglianza, soliadrietà, democrazia. C'è poco da fare: l'uomo è un feroce idiota. E quando la ferocia si accompagna all'idiozia, la tragedia è sempre dietro l'angolo».

Come sta vivendo l'attesa del verdetto della giuria popolare del Campiello?

«Aspetto fiducioso».

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