Michelstaedter inedito versi per le sue donne pensando alla Morte

la recensione
Che Carlo Michelstaedter sia stato poeta precoce lo rivelano due quaderni, copiati in fretta dalla sorella Paula e consegnati a persone di fiducia nel timore che venissero distrutti dalla violenza nazista. Giunti nelle mani di Sergio Campailla, curatore di una nuova edizione riveduta e ampliata con alcuni inediti delle Poesie di Michelstaedter (Adelphi, pp. 144, in libreria dall’11 febbraio), hanno permesso di retrodatare di cinque anni l'inizio di un percorso intellettuale chiuso con la tesi di laurea, “La persuasione e la rettorica”.
Dunque già nel 1900-1901 il quattordicenne studente dello Staatsgymnasium, appartenente alla buona società ebraica goriziana, cominciava a riflettere sulla vacuità delle ambizioni di una borgesia affamata di denaro e di potere. E per poterne discutere si rivolgeva A Mreule, il compagno di classe che chiamerà Rico nel suo più tardo Dialogo della salute. In questa prima poesia il piglio era combattivo, proprio di un ragazzo esuberante, a volte indisciplinato, che amava le lunghe pedalate in bicicletta, emblema di vitalistica libertà, su cui scrisse esametri giocosi seppur non esenti da attacchi al conformismo dominante. Intanto spostava l’analisi anche su di un sé in piena crisi, esistenziale e religiosa, come rivela l'autobiografica Se camminando vado solitario, una poesia pregna di echi leopardiani e petrarcheschi, che delegava all'amore, qui per una certa Elsa, il compito di superare quel momento. Era il 1905: La scuola è finita e Alba. Il canto del gallo sembrano tuttavia mitigare il suo pessimismo di fondo, con la loro gioiosa aspettativa di una nuova vita. Carlo si è iscritto a Matematica a Vienna, ma poi ha preferito gli studi umanistici che lo hanno portato a Firenze, all'Istituto di Studi Superiori.
Aveva diciotto anni e provava le sue prime esperienze sentimentali. Le poesie infatti sono in gran parte dedicate a una donna: innanzitutto a Nadia Baraden, l’amica russa che ebbe su di lui una certa influenza culturale e morale, morta ben presto suicida; poi, nel 1907, a Iolanda De Blasi. Ma è con Amico-mi circonda il vasto mare, composta a Pirano nell’estate 1908 e destinata ad Argia Cassini, una coetanea poi vittima delle persecuzioni razziali, che iniziava per Carlo una nuova stagione poetica. Affascinato da Ibsen, vedeva nella sua Donna del mare la rappresentazione perfetta della necessità di scegliere tra una banale quotidianità borghese, e l'inseguimento di rischiosi miraggi. Diversamente dal norvegese, preferì l’incognita rappresentata dal mare. Se già Iolanda era vista come "amica della profondità", è con Argia, il cui nome significa Pace, che l'abisso comincia ad esercitare su di lui un richiamo forte.
Tornato a Gorizia a preparare la sua tesi di laurea, il giovane ha in mente di iniziare la sua via alla “persuasione”, che è il superamento delle illusioni per cui si vive. Nel Canto delle crisalidi indica infatti in queste larve metamorfiche il simbolo di un possibile mutamento anche dell'essere umano, portando sul piano dell'astrazione metafisica l'antica contrapposizione tra le pulsioni di vita, l'Amore, e la loro cessazione, la Morte. Infiniti sono i rimandi filosofici di riferimento che lo portano a pensare al suicidio come estremo rifugio: solo scansando la vita l'uomo può resistere al fascino dei falsi valori, perché «non chiede di essere ma è». Carlo sapeva che non era possibile cambiare le cose in terra, luogo del compromesso, né guardava al cielo, per lui irraggiungibile. Ha puntato al mare, simbolo di una navigazione esistenziale la cui rotta porta alla pace dell'abisso, il terzo regno, da cui l'uomo è stato esiliato, e al quale voleva tornare. Ma sapeva bene che questa scelta implicava il ripudio della propria natura terrena. Nei Figli del mare, scritta nel settembre 1910, un mese prima del suicidio, il poeta si immaginava ormai metamorfizzato in pesce, e la sua donna, Xenia, la straniera, trasformata in sirena. È questa creatura, infatti, la dedicataria delle sue ultime poesie. —
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