Monika Bulaj: «Fotografo le religioni dell’esilio»

Giovedì al Teatro Miela per la rassegna Saesati il “performing reportage” della documentarista e scrittrice
Di Federica Gregori
Ragazzini albanesi studiano il Corano alla moschea a Prizren
Ragazzini albanesi studiano il Corano alla moschea a Prizren

Sembra una boutade ma scatta le sue foto con la macchina che in quel momento non è rotta. Perché per correre, per tallonare la persona che ha catturato il suo obbiettivo può finire in qualche corso d'acqua ben celato dalla vegetazione della steppa russa, o scivolare nel fango in Afghanistan o, nel migliore dei casi, finire avvolta da una nuvola di polvere del deserto africano. È un'avventura senza confini la vita di Monika Bulaj, fotografa, scrittrice di viaggio, documentarista. Dopo la prima internazionale nel suo Paese, la Polonia, e a ridosso del debutto italiano al Festival di Fotografia di Bergamo, giovedì alle 21 presenterà a Trieste “Dove gli dei si parlano”, un “performing reportage” fatto di immagini, suoni, film, storie raccontate da un io narrante, lei in persona, sul palcoscenico del Teatro Miela. L'attenzione ai popoli nomadi e diseredati che da sempre contraddistingue il suo lavoro non poteva trovare collocazione più felice di Saesati, il festival triestino dedicato alle migrazioni. Minoranze etniche e religiose, genti erranti e intoccabili a cavallo tra Europa, Asia e Africa investono anche il suo ultimo lavoro, che convoglierà presto in un libro edito dalla prestigiosa Contrasto. Stavolta riflettendo su un'appartenenza comune ai diversi credi, ebraici, cristiani o musulmani che siano, per suggerire, attraverso l'immagine, l'unità dell'umano.

Il suo lavoro, lei sostiene, è di raccogliere schegge di un grande specchio rotto. È andata così anche stavolta?

«È una narrazione e una ricerca - risponde Bulaj -, in parte improvvisata, in parte strutturata, sulla spiritualità di religioni anche piccole e dimenticate nelle pieghe della Storia. Dall'interesse verso i Lemki, gli zingari e l'olocausto, vera ossessione fin da quando ero ragazza, e una sorta di spinta verso ciò che di una cultura era stato rimosso, non ho perso il filo e continuo a raccontare storie di minoranze cercando di trattare mondi che scompaiono, dall'Europa orientale all'Africa. Per fare degli esempi tratto del culto Zar, diffuso in Etiopia, Sudan ed Egitto, culto di possessione dove l'uomo incarna una divinità che ne abita il corpo, e da sempre vestito di stereotipi grondanti sangue e sesso, cosa che non è affatto. O come il Vudù ad Haiti».

Che anche in questo caso non sarà come ce lo raccontano i film hollywoodiani...

«È tutt’altra cosa rispetto alla mitologia cinematografica delle major. Si tratta di una religione di grandissima forma poetica, d'incredibile immaginazione e bellezza. Poi ci sono religioni trascurate eppure vivacissime, come il Sufismo, scomodo da chi nell'Islam professa la violenza. In ogni caso m'interessano sempre le religioni dell'esilio, vissute da persone allontanate dalla necessità, come una volta, o quelle allontanate dalla violenza, oggi. Ma ce n'è talmente tanto, di materiale: è sterminato. Alla fine m'interessa non tanto la religiosità ma le persone che la praticano, catturare come in uno specchio la santità che è nell'uomo, e che cerco di guardare stupore infantile ».

Lei che è straniera vive girando il mondo cosa pensa dell'immigrazione in Italia?

«Mi considero “straniera cronica” ma non la vivo male perché posso prendere un pochino di buono da tutto. Vedo l'immigrazione come un ricambio e un'opportunità. Se penso alle migliaia di persone morte dopo aver pagato tanti soldi, ritengo che non sia qui all'arrivo ma nei luoghi di partenza che sia necessario lavorare e agire. È un pensiero dell'Europa tutta che va affrontato con lucidità e senza ipocrisia».

Che macchina usa per le sue foto?

«Leica prevalentemente, perché è maneggevole, a volte Canon e Fuji. Cerco di essere leggera perché è necessario per correre, muoversi rapidamente con le persone. Spesso cado, perciò ne uso una di scorta piccola. Perché le esperienze bisogna viverle assieme a chi fotografi, correre, stancarsi con lui».

Non ha paura a girare da sola in luoghi non proprio tranquillizzanti?

«No. Le uniche disavventure sono state quando sono stata derubata a Milano e poi minacciata con il coltello in Polonia. Mi storco la caviglia solo in casa e la sola mia paura, alla fine, è quella di non ripartire».

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