Nel bordello in Cavana una signorina mi spiegò anche le regole del latino

il diario
La mia Trieste è un fazzoletto pieno di lacrime e di santi. L’itinerario amarcord che seguo quando approdo in cità inizia con Sant’Anna, dove stanno i miei genitori e un paio di amici di adolescenza; potrei proseguire con quello che era l’ospedale psichiatrico di San Giovanni, ma non ci vado perché non vi troverei alcun segno delle sofferenze di tre fratelli, miei compagni di oratorio, che non riuscirono mai a superare l’angoscia dell’abbandono paterno e finirono miseramente. Quanto a San Sabba - dove fu trasferito dalle SS il mio primo amico triestino da un giorno all’altro con tutta la famiglia sparendo nel nulla - non ne voglio nemmeno parlare.
Il fatto è che io sono napoletano. A Trieste ci arrivai durante la guerra con mio padre che era stato richiamato alle armi. Il destino non avrebbe potuto scegliere momento peggiore: poco dopo iniziarono i bombardamenti alleati che ancora mi rimbombano nel cuore, poi arrivarono i carrarmati titini, quelli inglesi, i tank americani, le manifestazioni di italianità e il Territorio Libero per il quale sotto sotto serpeggiavano molte simpatie.
Certo, ho anche ricordi meno cupi di quei tre lustri che ho vissuto nella città di San Giusto. Ora mi mette il buonumore ma al tempo non mi fece affatto ridere quella che fu la mia unica esperienza di sport agonistico: poco prima che finisse la guerra da balilla quale obbligatoriamente ero, fui costretto a partecipare a dei giochi atletici per la gioventù. Alla selezione mi chiesero di scegliere una disciplina, ma nulla era disponibile se non «i 3000 metri»! Rimasi a letto dopo la gara per tre giorni con febbre, muscoli doloranti e un odio perpetuo per gli sport.
Per fortuna a mia madre la città piaceva. Trovava assai civile per esempio che ogni donna venisse chiamata «signora» compresa la lavandaia o la mia governante. E le piaceva che il dialetto fosse più morbido del suo o il fatto che perfino certe zone popolari della città non apparissero dei perenni rioni lavanderia.
Per tutte queste cose ma principalmente per non smembrare la famiglia, quando alla morte di mio padre si scoprì che dallo status di signori eravamo passati a quello di pezzenti, mia madre rifiutò l’aiuto della grande famiglia (io e i miei due fratelli affidati a zii senza prole in città diverse del Sud, e lei a fare da qualche parte la povera zia vedova) si rimboccò le maniche e della grande casa che abitavamo ne fece una pensione.
Situato in un palazzetto in via Diaz che occupava l’intero II piano, l’alberghetto non ebbe di solito residenti occasionali. Perfino il paio di lucciole che vi abitarono erano stanziali. Del resto non battevano il marciapiede, ma erano ragazze legate a militari stranieri di stanza in città: umili cortigiane XX secolo. Ci furono poi profughi giuliano-dalmati in fuga dai territori occupati dalle truppe jugoslave e un personaggio molto particolare che chiamerò Branka. Era una donna slava bellissima che entrò di prepotenza nei miei sogni di giovinetto; spesso mi portava con se e io le stavo appresso senza bisogno di guinzaglio.
Branka era una spia. In città frequentava assiduamente una sartoria nel cui salottino venivo lasciato a lungo durante le prove. Sulle fodere degli abiti che le confezionavano venivano riportate informazioni sensibili. Ad abito pronto la signora partiva per Belgrado comunicando la data del ritorno e se tardava anche di un solo giorno tutti entravano in fibrillazione. Mia madre mi spiegò successivamente che lavorava per l’organizzazione del generale filomonarchico Draža Mihailović. Da un ultimo viaggio Branka non fece più ritorno e per me fu un grande dispiacere.
Certo di Trieste ricordo sempre con piacere la Piazza dell’Unità e il Molo Audace – vicinissimi a casa - San Giusto, la favolosa riviera di Barcola - meta di bagni e di qualche primo significativo incontro galante; così come tutti i monumenti rilevanti della città. Ma se dovessi identificare il punto che istintivamente mi torna in mente pensando a Trieste, questo è Piazza Cavana: ai miei tempi in un vicolo affluente c’era un bordello di mezza tacca che frequentai dal giorno del mio 18° compleanno. Fui presto adottato da una signorina che – può sembrar strano - era stata insegnante di latino, materia in cui da quel momento cominciai a eccellere, nonostante i miei pessimi profitti scolastici.
Non solo: su quella piazza - in un punto d’angolo dove c’era un tempo e forse c’è ancora la piccola edicola di una madonnina – assistetti a guerra finita al mezzo linciaggio di un noto squadrista che ne aveva fatte parecchie per meritarselo. Ma quel punto mi è caro anche per un altro motivo: in stagione soggiornava su quel tratto di vicolo leggermente in salita il calderone fumante dei mussoli, una leccornia che non ho mai trovato in nessuna altra parte del mondo. Spero ci sia ancora.—
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