Nel Loggione del Verdi ho scoperto Wagner una sinfonia di odori con Joyce e Stuparich

TRIESTE «Si dava per la prima volta la Valchiria e il Sorniani si meravigliava che Emilio non fosse stato a teatro. Disse al Sorniani che la sera appresso sarebbe andato anche lui al Comunale: ma non ne aveva l'intenzione. Aveva perduta l'unica serata in cui il teatro gli sarebbe potuto piacere. La sera seguente Angiolina non ci sarebbe andata neppure se le fosse stato pagato di nuovo il posto. Wagner e Angiolina. Era già molto che si fossero incontrati una volta sola».
Svevo, Wagner, il Teatro Comunale “Giuseppe Verdi”: letture, ascolti e frequentazioni che per me, negli anni del Liceo, si intrecciano e si amplificano vicendevolmente. La scoperta dei romanzi sveviani va di pari passo con quella della musica e del teatro wagneriani. In «Senilità», la «Valchiria» andata in scena al Comunale in apertura della stagione di Carnevale e Quaresima 1893-94 segna un momento di svolta fondamentale nella vicenda. Pressoché tutti i personaggi del romanzo, sebbene in momenti diversi e con una diversa consapevolezza, vi assistono. Nella psiche del protagonista, l'esperienza è destinata a lasciare un'impronta profonda.
Nel mio vissuto, non è «Valchiria» ma «Sigfrido» la giornata della Tetralogia a costituire una sorta di chiave di volta non soltanto nella maturazione di ascoltatore e spettatore, ma anche nel determinare un preciso orientamento professionale. Gli anni Ottanta del secolo scorso mi vedono frequentatore assiduo del Teatro triestino inaugurato nell'aprile del 1801 con il nome di “Nuovo”, ribattezzato “Grande” vent'anni più tardi, divenuto “Comunale” nel 1861 e intitolato infine a Giuseppe Verdi il giorno stesso della morte del compositore. Verdi si spegne a Milano il 27 gennaio 1901. Per essendo una domenica, la Deputazione Municipale si riunisce immediatamente in seduta straordinaria per sancire la nuova intitolazione del Teatro, che sarà ratificata di lì a un paio di giorni dal Consiglio Comunale.
Andare all'opera per me, non ancora maggiorenne, significa frequentare quel teatro: fare la coda all'ingresso del loggione, acquistare un ingresso per pochi spiccioli, salire una lunga serie di rampe di scale e, dal punto più alto della sala, in piedi o inginocchiato e appoggiato alla balaustra di legno, nutrirmi di una, due, tre, quattro recite dell'allestimento in cartellone. Come nel caso di quel «Siegfried» che apre il 1984, o del «Così fan tutte» che lo precede, in chiusura del 1983.
Col passare degli anni mi è capitato spesso – e ancor oggi mi capita – di ripensare a quella stagione 1983-84. E di rivivere nella memoria quelle mie esperienze sullo sfondo della storia di quel teatro e dei suoi protagonisti: in sala e sul palcoscenico.
Tra i protagonisti di palcoscenico la memoria 'storica' rimanda in primis ai debutti delle opere verdiane «Corsaro» (1848) e «Stiffelio» (1850) e a Luigi Ricci: alla sua militanza quale maestro concertatore per oltre un ventennio (1837-1859), al suo chiassoso appartamento in Piazza Giuseppina (l'attuale Piazza Venezia), al suo sodalizio artistico con il fratello Federico, al suo ménage à trois con la moglie e la cognata (le gemelle Franzisca e Ludmila Stolz, sorelle del grande soprano verdiano Teresa Stolz), ai suoi viaggi artistici in mezza Europa e, in particolare, al Teatro di Odessa. Tra i protagonisti in sala ripenso in particolare a Stendhal («Ho ascoltato la Cenerentola per la prima volta a Trieste...»), o a James Joyce che, nel racconto autobiografico «Giacomo Jyoce» ci restituisce un'odorosa istantanea del loggione primonovecentesco: «Loggione. Le pareti impregnate trasudano un vapore umido. Una sinfonia di odori fonde la massa di accalcate forme umane: puzzo stantio di ascelle, annusamento di aranci, petti sudaticci di unguenti, acqua di resina, fiato di cene all'aglio solforoso, fetide scorregge fosforescenti, gaggia, lo schietto sudore delle donne maritate e maritabili, la puzza saponosa degli uomini...».
Ma la più evocativa descrizione di quello spazio che anch'io avrei assiduamente frequentato e amato rimane per me quella lasciataci da Giani Stuparich nel racconto «Al Tristano e Isotta», pubblicato nel 1932 e riferito all'allestimento dell'opera wagneriana andato in scena alla vigilia della catastrofe della Prima Guerra Mondiale: «Indimenticabile loggione del Comunale. Lassù io avevo vissuto le più belle serate della mia giovinezza. In quell'aria pesante, sotto le volte opprimenti, in quegli stalli da chiesa disposti in semicerchio uno sopra l'altro, a precipizio sulla normale del palcoscenico, che pareva infinitamente lontano e piccolo, come in un binocolo rovesciato: stretti, accaldati, soffocati, come ci si stava bene! S'era giù, all'ingresso, alla quattro qualche giorno, per aspettar di salirvi alle sette; e come ci s'arrrivava, dopo la corsa su per le scale che non finivano più! L'aria aveva sentore di polvere bagnata, il teatro era ancora tutto nell'oscurità, e giù in fondo il sipario di sicurezza, grigio e pesante, si apriva nel mezzo lento lento». —
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