Nel Nobile Corano prevale la misericordia

Il docente Wael Farouk oggi agli incontri del Premio Luchetta discute con Toni Capuozzo, Pablo Trincia e Maria Gianniti
Di Wael Farouq*
14 Nov 2004, Rome, Italy --- A child stands while women pray during Eid El Fitr celebrations. The ceremony marks the official end of Ramadam fasting and is considered a day of forgiveness. --- Image by © Alessandra Benedetti/Corbis
14 Nov 2004, Rome, Italy --- A child stands while women pray during Eid El Fitr celebrations. The ceremony marks the official end of Ramadam fasting and is considered a day of forgiveness. --- Image by © Alessandra Benedetti/Corbis

di WAEL FAROUQ*

“N. el nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”… Il musulmano non compie mai nulla, nella sua vita quotidiana, senza prima anteporgli questa frase, la stessa che precede ogni sura del Nobile Corano. Al-Rahim, il Misericordioso, è il nome di Dio, mentre la rahma, la misericordia, è il suo attributo. La rahma compare 268 volte nel Nobile Corano, sia in forma di sostantivo sia in forma di verbo, con diversi significati. Rahma significa benevolenza, affetto, grazia, perdono, ricompensa, esaudimento di una preghiera, pioggia e paradiso. Nel significato di rahma rientra tutto ciò che è buono e utile per l’uomo, in questa e nell’altra vita. Fra le questioni trattate nel Corano, non se ne trova quasi nessuna la cui motivazione e fine non siano la rahma. Se si potesse sostituire il nome della religione islamica con un’altra parola, questa sarebbe proprio rahma e il nome di questa religione sarebbe “la religione della rahma”. Nella Sura dei Profeti, al versetto 107, Iddio Altissimo dice: “E non ti abbiamo inviato che in segno di misericordia per il mondo”. Per questa ragione, fra i giuristi islamici esiste il consenso unanime che ciò che si allontana dalla misericordia verso il suo contrario non fa parte della sharia, la legge islamica.

Questa parola centrale, rahma, e il suo significato essenziale, derivano da rahim, il grembo della donna. Rahim è anche la parentela, il legame familiare. Scrivendo ciò provo un sentimento di umiliazione, perché mentre offro una testimonianza di questa fede, nel suo nome si stanno compiendo crimini selvaggi in Iraq e Siria. La sola cosa che mi conforta è la testimonianza che credenti indifesi ci stanno offrendo di fronte a questo male. Le vittime irachene non sono cadute a causa di una catastrofe naturale. È stata imposta loro una scelta e hanno scelto. Sarebbero bastate poche parole per abiurare la loro fede e avrebbero evitato tutte queste pene. Invece, hanno scelto di rinunciare a ogni cosa pur di mantenere la loro fede. Hanno scelto una vita immersa nel dolore, ma piena di significato. Le persone che hanno compiuto questa scelta eroica non sono straordinarie. Tuttavia, in un momento straordinario e drammatico, si sono poste la domanda: chi sono io? Qual è l’essenza della mia vita? Che cosa lega il momento presente che sto vivendo con il suo significato eterno?

Molti di noi passano la maggior parte della propria vita senza mai affrontare queste domande, perché nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Viviamo una vita effimera, abbiamo dei lavori effimeri, delle relazioni effimere, dei matrimoni effimeri, delle abitazioni effimere… Anche gli oggetti che utilizziamo nella nostra vita quotidiana sono diventati effimeri: fazzoletti di carta, sacchetti di plastica, stoviglie e posate di plastica… Nulla reca un segno di distinzione, nulla reca un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o transitare, nel mondo; il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro aumenta. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa.

La domanda, ora, è: come affrontare questa realtà, in momenti non drammatici e non straordinari della vita di tutti i giorni? Forse potremmo trovare una risposta nella storia che segue, realmente accaduta. È la storia di uno studente universitario che fa la conoscenza di una ragazza della quale diventa amico. Condividono ogni cosa, dallo studio, al cibo, all’amore per l’arte… Quanto più la loro amicizia si fa profonda, tanto più la ragazza si mostra tesa, finché un giorno lei gli dice, nervosamente, di essere lesbica. Lui, allora, le risponde: “Ma tu, sei soltanto questo?”.

Il ragazzo non giudica la sua amica come lei si aspetta, non prova alcuna superiorità morale nei suoi confronti, ma si comporta come un amico che ama la sua amica. Il proverbio dice che l’amore è cieco, perché non vede i difetti della persona amata. Io dico invece che l’amore è discernimento, perché vede ciò che sta dietro. Che cos’ha visto quel ragazzo? Ha visto un essere più grande della sua scelta sessuale. Al contrario della ragazza, lui non ha ridotto l’esistenza dell’amica alla sua sola attività sessuale, perché lui l’amava e chi ama vede. Benedetto XVI dice che “noi non possediamo la verità, ma siamo posseduti dalla verità”. La condanna e il giudizio degli altri sono il comportamento di chi possiede la verità. Chi è posseduto dalla verità, invece, non conosce altra via che non sia il testimoniarla e non conosce altra via per testimoniarla che non sia l’amore. Chi possiede la verità sceglie una volta sola nella vita e tutto finisce lì. Per chi è posseduto dalla verità, invece, la scelta è una sfida quotidiana e continua, perché con ogni scelta prende forma il suo essere unico che testimonia l’esistenza di una verità più grande dell’effimero e del fugace, custodita in un grembo pulsante presente in ogni uomo e in ogni donna: il cuore.

*Docente di Lingua araba all’Università Cattolica di Milano

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