Nella cittadina di Breathed dove inferno e paradiso si mescolano nella vita

Nell’ultimo romanzo di Tiffany McDaniel “Il caos da cui veniamo” il racconto disturbante di una saga familiare vista lungo un decennio con personaggi fragili e spietati 
Jack in the Box and toy doll, 3D Rendering
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la recensione



«Solo la libertà fa la differenza tra una vita vissuta e una vita che ci viene imposta», è una delle tante frasi che meritano di essere sottolineate ne “Il caos da cui veniamo” della giovane Tiffany McDaniel. È il secondo romanzo edito in Italia grazie alla coraggiosa casa editrice Atlantide, che di McDanel ha pubblicato anche una raccolta in versi e il primo romanzo, “L’estate che sciolse ogni cosa”, sempre per la traduzione di Lucia Olivieri, e che in America e in Gran Bretagna ha vinto il Not the Book prize come miglior romanzo dell’anno. Libri per lettori forti, non c’è dubbio, sostenuti da uno stile classico e da una forte struttura. Ma McDaniel, come lei stessa ammette, ha dovuto impegnare tutta la sua forza e determinazione per ottenere il primo contratto, in America, a quanto pare anche là il clima editoriale è cambiato: «Per undici anni i miei scritti sono stati rifiutati da molti editori perché considerati troppo cupi e disturbanti».

È singolare come si sia sviluppato questo termine, “disturbante”, soprattutto in Italia per indicare un libro che risulti sconveniente, risulti insomma uno di quei libri che esamina troppo a fondo l’animo umano “disturbando” il lettore che, nell’immaginario editoriale, legge ormai solo per distrarsi e non pensare ai disturbi della vita. Un fenomeno che ha sradicalizzato la scrittura dalla sua origine e dal suo valore, facendo della letteratura, per lo più, pura narrativa. E quel che è peggio: facendo passare la narrativa per letteratura, insomma adeguando i canoni artistici al valore della massa senza preoccuparsi più di concetti desueti come: giustizia estetica.

Tiffany McDaniel non si è fatta abbattere da questa tendenza, dritta per la sua strada ha scritto almeno sei romanzi prima di esordire con “L’estate che sciolse ogni cosa”, una vera e propria saga tra male e bene nella fittizia cittadina di Breathed, in Ohio. Un libro d’esordio sorprendentemente maturo dove l’immaginaria cittadina è una sorta di Peyton Place in cui l’incapacità di pensare autonomamente è il vero crimine. E Breathed torna anche nell’ultimo “Il caos da cui veniamo”, romanzo duro e incantevole, che non si può leggere tutto d’un fiato. Ogni tanto è necessario fermarsi, chiudere il libro, riacquistare fiducia perché McDaniel non ha nessuna intenzione di consolarci. Casomai di farci riflettere prima di consumare una vita inquadrata, dissolta dalla paura.

follia e affetto

Idealmente ispirato alla storia di sua madre, “Il caos da cui veniamo” mette subito le cose in chiaro, deciso a mostrarci la vita com’è, non come vorremmo che fosse. C’è l’esistenza intera nei suoi romanzi, esaminata con un filtro che si tiene ben distante da qualsiasi lente moralista. È pura fiction, è letteratura insomma, solo storia, personaggi, azioni. Una saga famigliare che copre circa un decennio, da quando la voce narrante ha sette anni fino ai diciotto.

Bitty è la settima di otto fratelli della famiglia Lazarus in cui ogni protagonista ci restituisce molto a partire dalla madre, in bilico tra follia e bisogno d’affetto, un personaggio fragile e spietato. L’esatto contrapposto del padre che tenta di far sopravvivere tutti elargendo a ognuno una massiccia dose di creatività. Una famiglia sgangherata e con alle spalle storie spietate e torbide. Eppure tra crudeltà, incesti e sofferenze, McDaniel riesce a impastare l’inferno al paradiso, anche se perduto, contribuendo a farci capire una volta in più il labile confine tra male e bene. Perché appunto, l’esistenza mescola i valori con furbizia luciferina e spesso il bene sta dove crediamo stia il male. E viceversa.

Sal, il diavolo

Un tema che fa parte della sua poetica, ben presente anche ne “L’estate che sciolse ogni cosa” e prende vita nel personaggio di Sal, un giovanissimo ragazzo di colore che si presenta come il diavolo. È un’educazione sentimentale che ha la sua grande protagonista: l’infanzia, quando le ferite possono deviare qualsiasi futuro, ma da cui ci si può liberare se nelle vene scorre abbastanza senso della libertà e della rivincita. Bitty è la voce narrante, Bitty è colei che si salva raccontando storie, usa la fiction come una preziosa medicina che si sovrappone alla realtà impedendole di fagocitarci e in questo il romanzo sviluppa la sua vena metaletteraria, sullo sfondo di un’America anni ’70. È inevitabile non pensare a Stephen King, sono mondi piuttosto simili. Anche qui troviamo le esperienze irripetibili dell’infanzia e dell’adolescenza, ma McDaniel le descrive in salsa horror reale, non fantastica. Non usa metafore, sono comunque storie di amore, amicizia, distacchi, ingiustizie che invadono la vita di ragazzini costretti a crescere in fretta e dove l’arte, in qualche modo, pare il collante della salvezza. Non a caso il personaggio più lirico è Trustin, il più giovane dei fratelli. Se Bitty si salva raccontando storie, Trustin si difende disegnandole. Escluso Landon Lazarus, il capo famiglia, gli adulti non ne escono bene e ciò lega McDaniel ulteriormente a Stephen King. Ma è anche vero che l’analisi è più arguta perché, dice Bitty, è solo attraverso il caos (adulto) che si impara a volare, con una buona dose di realtà che volteggia in fiction, senza facili conforti, se non quello di rialzarsi, confidare in un’idea di felicità e andare avanti. Ora c’è Tiffany McDaniel a raccontarcelo, per chi ha coraggio di “leggere”. —

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