Nella “Paura della libertà” il coraggioso mondo di Carlo Levi

la recensioneLa riedizione di “Paura della libertà” (Neri Pozza, pagg. 154, Euro 15,00) è l’occasione per ripensare il percorso letterario di Carlo Levi. Una parabola iniziata con il grande successo...

la recensione

La riedizione di “Paura della libertà” (Neri Pozza, pagg. 154, Euro 15,00) è l’occasione per ripensare il percorso letterario di Carlo Levi. Una parabola iniziata con il grande successo di”Cristo si è fermato a Eboli” e altrettanto rapidamente tramontata con le opere successive, appunto la “Paura” e “L’orologio”, accolte al loro apparire da critiche e silenzi. Ma ora, ammonisce Giorgio Agamben nell’introduzione, “di fronte alla cecità di una classe dirigente che, tanto a destra quanto a sinistra dello schieramento politico continua a muoversi servilmente nella direzione indicata dallo sviluppo capitalistico” le parole di Levi tornano d’attualità. Gli scritti del medico e pittore torinese e questo in particolare, un poema filosofico come lo definì Levi stesso, che lo considerava il suo libro più importante, ambiziosa summa della sua concezione del mondo, della sua personale reinterpretazione della storia, si possono leggere come una condanna dello stato centralista, sia esso fascista o liberale. Levi abbraccia invece la visione di uno stato come un insieme di infinite autonomie, ad iniziare dal piccolo comune rurale. Agamben fa qui un parallelismo con quanto avveniva in quegli anni a Casarsa, dove un ventenne Pasolini fondava l’Academiuta di lenga furlana, un gesto che rivendicava la nobiltà del dialetto dei contadini.

Scritto nell’autunno del 1939, a guerra cominciata, in una casa solitaria su una spiaggia della Bretagna, ‘Paura della libertà’ uscì per la prima volta nel 1946, un anno dopo il successo del ‘Cristo’. Levi voleva svolgere la sua analisi partendo dalle cause di una crisi che ricercava nell’animo umano e che nella Francia invasa dai nazisti vedeva giunta alla sua apocalisse, ma proprio a causa della guerra non riuscì a portare a termine. Gli otto capitoli conclusi permettono però di ricapitolare l’intero disegno.

Il libro andò incontro a severe stroncature: troppo ambiguo, fu bollato, con una visione mistica e decadente. A Carlo Levi, “stregone e scrittore” come lo chiamava Muscetta, si imputava di essere diventato scrittore per caso. Non aveva molti amici nemmeno nella casa editrice Einaudi. Si sa che Pavese non ne gradiva il successo: “tutto questo chiasso per questo Cristo, non se ne può più”, scriveva. Giulio Einaudi, paterno, smorzava i toni. In fondo, diceva, la sua casa editrice non era stata mai entusiasta di nulla. Il flop della ‘Paura’ rassicurò i letterati italiani, un altro ‘Cristo’ si dissero con un sospiro di sollievo, non lo avrebbe più tirato fuori. Oltre alle invidie personali, alla sinistra comunista non andava giù quel suo essere azionista, figlio del gruppo torinese di Gobetti. Così quando uscì ”L’orologio”, il libro venne accolto malissimo, con accuse di qualunquismo anarcoide. Solo dopo la morte i comunisti lo riabilitarono. “‘L’orologio’, scrisse ‘Rinascita’ rendendogli l’onore delle armi, “più ancora forse del ‘Cristo’, è un libro da rileggersi”. —

PAOLO MARCOLIN

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