Nelle Isole di Norman Veronica Galletta traccia la mappa delle cicatrici del passato

L’esordiente siciliana pubblicata dall’editrice triestina Gaffi-ItaloSvevo ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 
Lots of messages in bottles floating on ocean surrounding desert island
Lots of messages in bottles floating on ocean surrounding desert island

l’intervista



C’è un’isola. C’è una giovane donna in cerca di sua madre. E c’è un mistero. Il romanzo si intitola “Le isole di Norman”, pubblicato per le edizioni triestine Gaffi-ItaloSvevo (pagg. 308, euro 18), a firma della siciliana Veronica Galletta. Il libro è uscito nella nuova collana Incursioni diretta da Dario De Cristofaro che ha chiari obiettivi di scouting, cioè individuare esordienti di talento.

E quindi pare partire bene dal momento che “Le isole di Norman” ha meritato il Premio Campiello Opera Prima. È un romanzo lineare con al centro una ricerca precisa, quella dell’identità, quella di chi vuole fare luce su una memoria confusa, anche se infine si rivelerà non essenziale. L’autrice ha il merito di tratteggiare anche un’epoca, uno sfondo paesaggistico sociale, a prevalere comunque è un’indagine esistenziale, la possibilità, in qualche misura, di risolversi, di sentirsi liberi, di poter dare inizio alla propria voce più autentica.

Galletta scrive da sempre, molti suoi racconti sono pubblicati in diverse riviste, ma questo appunto è il suo primo libro. Di professione fa l’ingegnere idraulico e nel romanzo c’è anche un chiaro ricorrere ai numeri, forse un modo per coniugare le sue due passioni, letteratura e matematica: «Ho sempre avuto una grande passione per i numeri, fin da bambina, quando mi inventavo giochi scaramantici sommando e sottraendo le cifre delle targhe delle auto che mi passavano davanti – dice –. Crescendo, facendo certi studi, sicuramente i numeri sono diventati una chiave per interpretare il mondo, la stessa chiave che in forma diversa usa Elena, la protagonista del romanzo».

Lei definisce la famiglia come “una disturbante normalità”. Cosa intende?

«La famiglia è il modo in cui stiamo in relazione nella nostra società, il modo più normale di intenderci, del quale chiediamo quando ci incontriamo, anche solo per conoscerci. Sei sposato? Hai figli? Il modo più normale, un legame stretto, che se stringe troppo poi disturba, inquieta, intralcia. Un po’ come con i segnali di trasmissione, che non sono mai puliti. I disturbi esistono, dipende da quanto sono alti e quanto interferiscono con il segnale principale».

La sua protagonista è ossessionata dal passato e da un mistero di cui porta le tracce nel corpo, ma alla fine ha scelto di non sciogliere il rebus. Perché?

«Non so, forse ha scelto di non sciogliere il rebus, forse ha capito qualcosa e la tiene per sé, forse ha solo capito che non è importante analizzare tutto. Arrivata alla fine della storia le motivazioni di Elena sono diventate solo sue, e non più intenzioni mie».

Quasi tutto il romanzo è ambientato nell’isola di Ortigia, il paesaggio pare un protagonista fondamentale…

«Il paesaggio è sempre un protagonista fondamentale, di ogni storia. Influenza le vite delle persone in tutti i modi, ne condiziona le vite, i movimenti, ne forgia il carattere. Per me, è una cosa che non mi stanco mai di studiare. Osservo il cortile dalla finestra della cucina di casa, e ogni giorno trovo qualcosa di diverso, di interessante».

Lo sfondo è anche epocale, dal sequestro di Aldo Moro all’assedio di Sarajevo. E poi c’è Michele, il padre della protagonista, un nostalgico del comunismo. La storia collettiva ha una qualche influenza sull’identità dei protagonisti?

«La storia collettiva influenza l’identità di tutti noi, sempre, anche se a volte non ce ne accorgiamo. Mi sono resa conto che è una cosa che faccio naturalmente, nel momento in cui costruisco una storia, come se costruissi delle mappe temporali, giusto per parlare ancora di mappe. Anche quando si tratta di eventi di portata non collettiva, o epocale (penso ad altri riferimenti nel romanzo a eventi minori). Anche se si tratta di eventi storici che mi invento del tutto, ho la necessità di far interagire le storie personali con quelle collettive. E poi certamente, ci sono eventi che sono dentro tutti noi, come il sequestro Moro o l’assedio di Sarajevo, certamente».

La madre invece è scomparsa, prima di andarsene viveva isolata nella sua bizzarra biblioteca. Cosa rappresenta?

«Credo che i libri siano per la madre di Elena un modo di rapportarsi al mondo, di fermarlo per leggerlo con calma. Tocca i libri, li sposta, forse ne legge parti. Dico credo, dico forse, perché in fondo nessuno di noi lo sa, neppure io. È un personaggio misterioso, dentro il quale spero che ogni lettore trovi un suo personale senso».

La struttura si basa anche su una sorta di mappatura del paesaggio e del corpo. Elena associa alle sue cicatrici delle isole. Come mai?

«Per una forma di gioco, le cicatrici sono con lei da sempre, e lei da bambina le osserva come si osserva il naso, gli occhi, la bocca. E siccome le piacciono i libri dei pirati, L’isola del Tesoro sopra tutti, si diverte a immaginarli come isole».

Sta scrivendo qualcos’altro?

«Sì, sto lavorando a una storia, con un progetto per il quale ho cominciato a prendere appunti durante gli ultimi mesi, con la calma che abbiamo avuto lontano da tutti nei mesi di marzo e aprile. Anzi, non vedo l’ora di rimettermici su, appena possibile». —



Riproduzione riservata © Il Piccolo