Nelle lettere di Joyce «la felicità suprema di tornare a Trieste»

di ELISABETTA D’ERME
«Che penna infame!» canta Rodolfo nel quarto atto della 'Bohème' e Marcello gli ribatte «Che infame pennello!».
Battute che devono essere rimaste ben impresse nella memoria di James Joyce, che a Trieste vide l'opera di Puccini al Rossetti per 8 volte nella produzione del 1908; e in quante delle sue lettere (quando vuole tagliare corto) lo sentiamo riecheggiare Rodolfo mentre scrive ad esempio alla sua mecenate Harriet Shaw Weaver: «Che penna terribile!» (26 dicembre 1917).
La penna era il suo strumento di lavoro, che alternava al "lapis", matite colorate o a pastelli quando la vista era debole. Con questi strumenti scrisse racconti e romanzi (che poi venivano battuti a macchina da scandalizzate dattilografe e che pruriginosi tipografi si rifiutavano di stampare), ma anche una mole sterminata di lettere. Una selezione, pari a circa due quindi dell'epistolario, già edita nei Meridiani nel 1976 e poi da Pgreco nel 2012, viene ora riproposta in una nuova edizione curata e pensata da Enrico Terrinoni, che ha raccolto in un unico volume "Lettere e saggi" di James Joyce (Il Saggiatore, pp. 1101, euro 75).
Se per le lettere e alcuni saggi sono state mantenute le traduzioni (riviste e corrette) di Giorgio Melchiori, Giuliano Melchiori e Renato Oliva, per i saggi giovanili pubblicati ora per la prima volta in Italia la traduzione è di Sara Sullam. La voluminosa corrispondenza dello scrittore irlandese è stata ri-suddivisa per periodi preceduti da introduzioni di Enrico Terrinoni, Franca Ruggieri, Giorgio Melchiori e della studiosa triestina Francesca Scarpato.
Dunque, mentre si parla di rendere pubblico l'intero corpus delle lettere ancora inedite, Il Saggiatore ha deciso d'affrontare comunque un'impresa editoriale così imponente, in quanto - come ci informa Terrinoni - il progetto per la Oxford University Press a cui sta lavorando William Brockman, avrebbe tempi e modalità di pubblicazione incerti, legati a problemi editoriali dovuti alla logistica ed ai diritti. «Tuttavia - sottolinea - l'edizione delle lettere scelte da Melchiori nel 1966 è un campione rappresentativo del totale dell'epistolario noto, ed è sicuramente una selezione migliore di tante altre possibili. Era però un'edizione che andava aggiornata. Non solo nella lingua ma soprattutto negli apparati critici, tenendo presente gli enormi passi avanti compiuti dagli studi joyciani negli ultimi decenni».
Di fatto, le prime 700 pagine del volume si leggono come un grande romanzo epistolare, di cui è protagonista un proteiforme James Joyce: dallo squattrinato Jim che tormenta il fratello Stanislaus al Jim sensuale amante e marito geloso dell'evasiva Nora, dal babbo che invia missive preoccupate alla figlia malata Lucia, o piene di consigli per la sua carriera di basso-baritono al figlio primogenito Giorgio. C'è poi il poeta che a Zurigo invia appassionate righe non firmate a Martha Fleischmann.
Accanto al lamentoso indigente delle lettere a Pound o alla Weaver, c'è però lo Zois che preferiamo, ovvero il James più volte citato che si rivolge in dialetto triestino molto colorito e ironico ad Ettore Schmitz o a Alessandro Francini Bruni, sempre con qualche richiesta impossibile, o ancor meglio il Joyce delle lettere piene di confidenziale complicità all'amico Frank Budgen. Tutti personaggi, questi, che James ama salutare in chiusura con una virile "stretta di mano".
Dopo il trasferimento a Parigi le lettere sembrano però registrare una trasformazione. Secondo Terrinoni, traduttore dell'"Ulisse" (Newton Compton 2012), «prima dell'uscita del suo capolavoro Joyce sapeva d'essere un genio incompreso sconosciuto ai più. Dopo "Ulisse" rimase un genio incompreso, ma ora lo conoscevano tutti. Dal 1914, quando viveva ancora a Trieste, il nome, la fama e le imprese di Joyce erano già iniziate a circolare con la pubblicazione seriale di "Dedalus". A Parigi poi, con "Ulisse" si compì il cerchio, iniziò ad avere riconoscimenti, anche economici grazie al suo savoir-faire coi mecenati e riuscì a dedicarsi sempre più soltanto alla sua arte. "Ulisse" lo rese quel che è, ma non era solo questione di fama. Joyce non cambia mai atteggiamento, carattere, natura: resta sempre la persona che sa ridere delle disgrazie, che supera gli ostacoli con tenacia, che non si piega mai».
Oltre ad avere una bella veste grafica e a offrire una chiara e leggibile riproduzione dello schema esplicativo dell'"Ulisse" inviato a Carlo Linati il 21 ottobre 1920, questo volume include i nove articoli che Joyce scrisse per “Il Piccolo della Sera” dal 1907 al 1912, e le sei conferenze tenute nello stesso periodo all'Università Popolare di Trieste. Questi testi triestini, vennero prodotti dopo il suo disastroso soggiorno romano, durante il quale lo scrittore rimase scandalizzato dal fatto che i dipendenti della banca in cui lavorò per sei mesi avessero come «massima occupazione nella vita lo stato (…) rotto, gonfio ecc. dei loro coglioni» e che il loro massimo divertimento fosse «di dare fiato al deretano».
A Roma, come pure durante i brevi soggiorni dublinesi, o a Zurigo, l'esule pensava però sempre «con gli occhi del desiderio» alla sua "bella Trieste" che dal 1904 al 1920 fu per lui e Nora «la città che ci ha dato un rifugio», ma anche una seconda patria, estremamente feconda di impulsi creativi.
E a dicembre del 1909, da Dublino dove stava aprendo il Cinema Volta per conto di imprenditori triestini, già pregusta il suo ritorno a casa a Trieste: «Oh, che felicità suprema!! (...) I figlioli, il fuoco, una buona mangiata, un caffè nero, un Brasil, Il Piccolo della Sera (sic!) e Nora, Nora mia, Norina, Noretta, Norella, Noruccia ecc....».
Questa edizione delle lettere e dei saggi presenta per la prima volta ai lettori italiani anche una serie di scritti giovanili, relativi al periodo in cui Joyce provava a mantenersi scrivendo recensioni, e stroncando sonoramente autori, editori, modelli culturali. Come in alcune lettere, anche qui è evidente quanto l'opera matura di Joyce sia impregnata di eventi, letture e relazioni risalenti alla sua giovinezza.
«Nel 1903 quando, studente, scriveva da Parigi, Joyce dev'essersi fatto molti nemici, e - suggerisce Terrinoni - non escludo che questo abbia giocato un ruolo nelle sue successive difficoltà editoriali. Gli scritti giovanili sono parte integrante della sua parabola di scrittore: disegnano un percorso coerente, mai disposto al compromesso, un'integrità assoluta, da difendere con i denti. E ci dicono soprattutto che Joyce non inventò davvero mai nulla. Un esempio: dall'intervista del 1903 a un pilota di corse automobilistiche nascerà il racconto "Dopo la corsa" incluso in "Gente di Dublino". È negli scritti del giovane Joyce che ritroviamo, maturate al punto giusto, le idee estetiche non solo di Stephen Dedalus, ma anche di Leopold Bloom. Credo che leggere con attenzione quei testi aiuti a riconciliare anche queste due apparenti polarità, Stephen e Bloom, che sono in realtà due facce di una stessa medaglia, come Shem e Shaun in Finnegans Wake».
Dunque, come scrive Terrinoni nel suo stimolante saggio che apre il volume, tutto materiale per ricostruire «una vita che dobbiamo "rimemorare", (…) un universo fatto di mondi (worlds) fatti di parole (words)». Mondi che grazie alla lettura possiamo evitare di far "rimemorire".
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