Nelle opere di Safet Zec l’ordinarietà delle cose svela il senso del mondo

di Stefano Giantin Ci sono gli alberi, dalle folte chiome nere e grigie, trasferiti sulla tela con le tecniche della china o dell’acquaforte. Ci sono gli oggetti. Un tavolo da lavoro, illuminato...
Di Stefano Giantin

di Stefano Giantin

Ci sono gli alberi, dalle folte chiome nere e grigie, trasferiti sulla tela con le tecniche della china o dell’acquaforte. Ci sono gli oggetti. Un tavolo da lavoro, illuminato dalla luce bianca di una grande finestra, una credenza, come quelle che ancora si possono ritrovare in qualche casa in Vojvodina, in Bosnia o Montenegro, semplici mobili di color verdino anni Cinquanta o Sessanta, dove si mettevano in bella mostra i servizi per gli ospiti, un piatto da portata, una grande pagnotta.

Ci sono anche finestre sporche, piatti e cucchiai, una grande tavola con sopra suppellettili ordinarie che spesso sfuggono all’osservazione quotidiana. Una caffettiera, tazzine, una semplice tovaglia, un cucchiaio e un piatto su cui sono posati pezzi di pane. E poi patate, cibo comune e negletto, spesso ritenuto non degno di essere rappresentato.

Ci sono le persone, uomini afflitti, tesi, nervosi, su sfondi realizzati con collage di vecchi giornali e pagine di libri ingialliti. Acquerellisti che mettono orgogliosi in mostra una sgargiante tavolozza di verdi, rossi, gialli e blu. E ci sono luoghi, come Bentbasa, antico sobborgo di Sarajevo dove la Miljacka fa un’ansa, cantato nelle “sevdalinke”, canzoni bosniache d’amore gonfie di bile nera.

Alberi, persone, cose, luoghi, una miniera da cui trarre ispirazione per opere che colpiscono lo sguardo. Che fanno riflettere. Opere a firma di Safet Zec, uno dei maggiori pittori, incisori e disegnatori dei nostri giorni, tra i massimi esponenti dell'arte figurativa contemporanea, bosniaco nato a Rogatica, artisticamente cresciuto tra Sarajevo e Belgrado, adottato dall’Italia – da Udine e poi da Venezia – testimone del nostro tempo attraverso la creatività.

Zec a cui, dal 15 novembre scorso, viene reso omaggio con una mostra organizzata dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche. Mostra, dedicata alla memoria di Alexander Langer, che rimarrà aperta fino a domenica 15 febbraio negli spazi Bomben, a Treviso (da martedì a venerdì ore 15-20, sabato e domenica ore 10-20, per maggiori informazioni www.fbsr.it) e che è stata visitata finora da più di un migliaio di appassionati d’arte, un ottimo risultato, sottolineano gli organizzatori.

L’esposizione è nata nel quadro della campagna culturale a favore dei villaggi di Osmace e Brezani, sopra Srebrenica, dove il fenomeno del ritorno dei “cacciati”, dei ripuliti dalla pulizia etnica e soprattutto dei loro figli e nipoti impegnati nella ricostruzione, è da anni seguito con attenzione dalla Fondazione.

Ritorno che è anche attaccamento alla terra d’origine, alle radici mai tagliate, è volontà di rimettere insieme i pezzi della convivenza, dispersi dal conflitto, un puzzle che può essere ricomposto anche attraverso la pittura. Da qui la scelta di Zec, definito dai critici un realista poetico, cui è affidato il ruolo di protagonista dell’esposizione di oltre settanta opere «che coinvolgono tutti i soggetti, i modi, i supporti e gli strumenti della pittura, dell’incisione e del disegno, e che raccontano la sua personalissima “ricerca”, dagli Anni Settanta fino agli ultimi lavori», si legge nei materiali informativi della mostra, pensata anche per far conoscere maggiormente al grande pubblico un pittore e incisore ancora lontano «dall’essere adeguatamente conosciuto e riconosciuto».

Arte che può essere apprezzata a Treviso seguendo appunto il filo rosso dipanato con attenzione e passione dal curatore della mostra, l’architetto Domenico Luciani, attraverso «le cose, le persone, gli alberi, i luoghi». Sono questi i quattro pozzi principali della miniera di Safet Zec, «quattro eterni rovelli della ricerca artistica, quelli che hanno reso grandi Michelangelo, Velázquez, Vermeer, Bacon, e gli altri, con Rembrandt in cima, le figure alle quali egli si rivolge con un’ammirazione così profonda da contenere, con il pathos della conoscenza, anche l’occhio dell’apprendista che cerca di rubare il mestiere, e perfino il gusto della sfida», ha scritto lo stesso curatore nella pubblicazione che accompagna l’evento.

Evento di un artista segnato dalle guerre, la Seconda e l’ultima balcanica, che hanno sicuramente pesato sulla personalità e sull’opera di Zec. «Tutta la sua figura oscilla di continuo tra il luogo sorgivo della sua personalità e le terre in cui ha trovato rifugio e poi assestato la propria vita, prima brevemente Vienna, poi Udine, dove mette radici e infine Venezia. Oscillazione che oggi lui vive come un pendolare tra Sarajevo e Pocitelj», splendido villaggio dell’Erzegovina tra Mostar e la costa, sulle rive della Neretva, «dove ha un laboratorio d’incisione cui tiene molto», spiega lo stesso Luciani.

Zec, due volte rifugiato, appena nato, nel 1944 e poi di nuovo negli Anni Novanta in seguito al collasso della Jugoslavia, che riuscì poi ad approdare in Italia trovando un porto sicuro nella città di San Marco, da lui descritta per immagini svincolandosi completamente dai canoni tradizionali e dai luoghi comuni figurativi sulla Serenissima, dipingendo angoli dimenticati della città, barche con reti da pesca e panni stesi sul fondo. Pendolarismo artistico e umano che, oltre alla valenza dell’opera di Zec, rende l’artista «un pezzo da novanta del panorama pittorico e incisorio internazionale contemporaneo».

Importanza suggellata anche dalla realizzazione di una grande “Deposizione” su tela per l’altare della cappella della Passione nella chiesa del Gesù a Roma e benedetta da papa Francesco a fine settembre, commissionata a Zec in occasione del secondo centenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù.

Ma qual è la peculiarità del protagonista della mostra, definito in patria come il «Michelangelo bosniaco», lodato da intellettuali come Jorge Semprun, il “Primo levi spagnolo”, che celebrò il lavoro di «scavo silenzioso» e sofferto di Zec, artista senza etichette la cui pittura esegue «un sequestro momentaneo della presenza nel mondo degli oggetti quotidiani»? «La ricerca dell’essenza delle cose, anche quelle più banali che lei vede davanti a sé, una penna, una patata, un paio di scarpe», risponde Luciani. E la ricerca della perfezione, come nel disegno delle mani, difficilissime da riprodurre su tela, uno dei suoi cavalli di battaglia. Tutti soggetti da cui l’artista bosniaco «riesce a trarre l’essenza».

Insomma, Zec riproduce con l’anima cose comuni, «nulla di più ordinario», chiosa Luciani, «ma non c’è nulla che attraverso la pittura diventi più resistente alla cancellazione». D’altronde, come ricordava lo stesso Zec nel 2010, si legge in un articolo a lui dedicato dal “New York Times”, l’arte è anche un modo per guardare e capire il mondo. «Siamo bombardati da immagini come mai prima, io voglio» invece «guardare» le cose «più da vicino, apprezzare la diversità, la bellezza delle cose quotidiane». Da qui la concentrazione sui dettagli, sul particolare che rende «tutto il resto periferico». Ma di periferico, a Treviso, non c’è altro. C’è invece in mostra l’opera di un grande artista. Da ammirare quanto prima.

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