Nell’Italia del boom Tyrone Power fa la spia a Trieste

Nella raccolta di saggi curata da Elena Dagrada i film raccontano un Paese in trasformazione
Di Paolo Lughi

di PAOLO LUGHI

Pane, amore e cinema. Per chi se lo fosse scordato, le storie di celluloide furono fondamentali nella Storia d'Italia del dopoguerra, e contribuirono (non senza contrasti) a ricostruire moralmente il nostro paese e a traghettarlo socialmente dalle macerie al boom. Lo ricorda ora, svelando ramificazioni insospettate, l'ultimo volume monografico della rivista "Cinema e Storia", a cura di Elena Dagrada, dedicato agli “Anni Cinquanta. Il decennio più lungo del secolo breve” (Rubettino editore, pag. 272, 16 euro). Partendo in realtà dal 1948 (consacrazione del Neorealismo e insieme inizio del suo tramonto) e arrivando fino al controverso benessere del "Sorpasso" di Dino Risi (1962), quest'ampia raccolta di saggi riunisce una nuova generazione di studiosi. E fornisce un dettagliato (e insieme poco conosciuto) spaccato di quell'epoca in cui l'Italia moderna affonda le proprie radici.

Chi ricorda le favolose nozze, celebrate a Roma il 27 gennaio 1949, fra Linda Christian e Tyrone Power (in Italia per le riprese de "Il principe delle volpi")? Ebbene, quel matrimonio insieme religioso e cinematografico fu il primo grande evento mediatico italiano del dopoguerra ad avere una risonanza internazionale. Sancì l'avviata americanizzazione culturale del nostro paese, che per gli occhi hollywoodiani era oltretutto il secondo mercato al mondo della settima arte.

Se ne occupa in un brillante saggio Federico Vitella, ricostruendo il ruolo attivo che ebbe il Vaticano nell'evento. Pio XII ricevette gli sposi dopo le nozze, e la Chiesa di Roma sfruttò l'occasione portando a proprio vantaggio le leggi della moderna comunicazione di massa, affermando implicitamente il proprio primato morale su Hollywood Babilonia. Fu meticolosa anche l'azione colonizzatrice della 20th Century Fox, che di quel matrimonio pianificò ogni dettaglio «secondo le regole d'oro dello star-system hollywoodiano, che voleva di piena giurisdizione dello studio l'immagine pubblica di un attore sotto contratto». Tanto che la chiesa dove si tennero nozze (Santa Francesca Romana, a due passi dal Colosseo) fu scelta addirittura dal premio Oscar Leon Shamroy, direttore della fotografia de "Il principe delle volpi". Gli interni vennero modificati per agevolare le riprese, il piccolo organo fu sostituito con uno più capace e il vestito della sposa fu confezionato dalle sorelle Fontana.

Il matrimonio Power-Christian, realizzato "come un film" e pubblicizzato su ogni quotidiano o rivista, rappresentò il clichè del moderno e romantico "viaggio in Italia" su base cinematografica, che arriverà fino a noi con le nozze di Woody Allen, Tom Cruise e George Clooney. Salvo far infuriare le fan di Tyrone Power che si considerarono "tradite". Power rappresentava all'epoca la punta dello star-system hollywoodiano, l'attore Usa di gran lunga più amato in Italia grazie alla riedizione di successi quali "Il segno di Zorro" o "Sangue e arena". E sarebbe stato presto protagonista di quel "Corriere diplomatico" (1952) ambientato in una Trieste "città delle spie" e prototipo di tutti i James Bond, con al centro la Guerra Fredda. Sempre nella Trieste capolinea della "cortina di ferro", nel 1950 si svolsero significativamente le nozze mediatiche più simili a quelle Power-Christian, fra il campione Tiberio Mitri e la miss Fulvia Franco.

È proprio la Guerra Fredda il tema centrale di molti saggi di "Cinema e Storia", ricordando il convincimento dell'America e della Dc di combattere all'epoca nella nostra penisola, anche con le armi dell'immaginario, una battaglia in prima linea contro il comunismo. Come osserva la curatrice Elena Dagrada, l'Italia vive allora «uno scenario fortemente conflittuale, segnato dall'opposizione delle 'due chiese': la Democrazia Cristiana e il suo uso politico della religione da un lato, il Partito Comunista e il suo uso religioso della politica dall'altro». Ma questa polarizzazione ideologica non si manifesta nei "film esemplari", perché nell'immediato dopoguerra capolavori del Neorealismo come "Roma città aperta" o "Paisà", definiti «i nostri migliori ambasciatori all'estero», avevano fortemente influenzato la nostra riabilitazione agli occhi stranieri. E avevano costretto loro malgrado i partiti a occuparsi del cinema (ad esempio con le politiche di Andreotti) e spesso a convergere su un giudizio positivo. La contrapposizione emerge invece altrove, nelle pellicole spesso trascurate (documentari, film industriali), ma soprattutto in quelle popolari.

Come avviene nella serie di grande successo - iniziata nel 1952 e tratta dai libri di Giovanni Guareschi - dei film di Don Camillo e Peppone. Ne parla Francesco Paolella esplorando le polemiche preventive fomentate da diverse fazioni politiche, prima di tutte dalla forte federazione comunista di Reggio Emilia. Il film ancora in lavorazione viene duramente contestato con affollati dibattiti organizzati a Brescello dall'«Unità». Fu anche convocato da Milano un critico cinematografico (il “compagno Noleggiato”, lo definirà Guareschi), che sparò a zero sul progetto. Guareschi, definito “giullare della borghesia”, fu accusato di edulcorare ogni problema sociale e agrario. D'altra parte non mancarono le critiche a priori anche dalle gerarchie cattoliche, che non vedevano di buon occhio un parroco troppo immerso nella lotta politica e anche pronto a menar le mani. Le polemiche non impedirono tuttavia lo straordinario successo di pubblico della serie, che invece di fatto dava una visione conciliante delle parti contrapposte. Nel frattempo, come ricorda Silvio Berardi, la critica di sinistra arruolava paradossalmente nelle sue file l'aristocratico Luchino Visconti, grazie alla visione gramsciana del Risorgimento che il maestro forniva in "Senso" (1954).

Tentativi di orientare politicamente il cinema dell'epoca non ci furono soltanto da parte italiana, ma anche da quella americana. Accadeva infatti che i film hollywoodiani d'autore sfuggissero alla strategia Usa in Italia nella Guerra Fredda culturale. Come ricorda Federico Robbe, nel 1955 "Il seme della violenza" di Richard Brooks, sul difficile rapporto fra un insegnante (Glenn Ford) e alcuni studenti, fu ritirato dalla Mostra di Venezia su pressione dell'ambasciatrice americana Clare Boothe Luce perché dava una cattiva immagine della società Usa. Ma il film alla fine fu distribuito due anni dopo. Accadeva inoltre che fosse lo stesso cinema italiano a reagire ai clichè con cui Hollywood raccontava l'Italia. Così Chiara De Santi ricorda quanto "Un americano a Roma" (1954), con Sordi, fosse una risposta all'americanizzazione proposta da "Vacanze romane" (1953) di William Wyler (con Gregory Peck e Audrey Hepburn), parodiando e criticando quella Roma pittoresca e da cartolina, distante dalla realtà del dopoguerra.

In definitiva, i tentativi di pianificazione della politica e dell'industria cinematografica ebbero talvolta effetti nulli o controproducenti. Come osserva Elena Dagrada, il cinema è un fenomeno «che non piace a tutti, ma che tutti devono farsi piacere», in particolare in quegli anni, proprio in virtù dei prestigiosi risultati ottenuti internazionalmente (come nel caso del cinema neorealista), oppure del successo di pubblico (come nel caso di Don Camillo e Peppone). Insomma, la politica e il mercato puntano ovviamente alla propaganda e agli incassi, ma «il cinema è un'altra cosa».

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