Nelo Risi, il poeta senza più parole

di ROBERTO CARNERO
Il tema della memoria, a cui Edith Bruck ha dedicato la sua carriera di scrittrice con importanti opere sulla tragedia della Shoah, è al centro anche del suo nuovo libro “La rondine sul termosifone” (La nave di Teseo, pagg. 142, euro 16). Tuttavia in questo caso si tratta di una memoria familiare, privata, sentimentale. Anche qui, in realtà, la grande Storia e le sue tragedie si affacciano, ma schermate dal filtro di storie più personali.
Protagonista del libro è il poeta Nelo Risi, fratello del regista Dino e terzo marito della scrittrice, scomparso nel settembre 2015. Edith Bruck gli è stata accanto sino alla fine, trascorrendo vicino a lui gli anni della progressiva demenza determinata dall'Alzheimer, che lo ha allontanato dal mondo, dai ricordi, dagli affetti, dal lavoro. Ne emerge non solo il ritratto di un grande poeta, ma quello di una donna straordinaria che, memore del dolore subito dai nazisti, ha deciso di rimanere al fianco dell'uomo amato. Così il ritratto di un amore diventa l'occasione per fare un bilancio della propria vita e del proprio rapporto con l'amore e con gli uomini.
Di origine ungherese, nata nel 1932 in una povera e numerosa famiglia ebrea, nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio, approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua. Nel 1962 pubblica il volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l'omonimo film. Nelle sue opere ha reso testimonianza dell'evento nero del XX secolo, avendo ricevuto diversi premi letterari ed essendo stata tradotta in più lingue.
Signora Bruck, quando e perché ha deciso di scrivere questo libro?
«Ho iniziato e finito di scriverlo nell'ultimo degli otto anni durante i quali si è protratta la malattia di Nelo. L'Alzheimer gli aveva tolto la memoria, i ricordi, la possibilità di riconoscere le persone. Io ho deciso di rimanergli vicina sino alla fine. I medici mi hanno detto che così l'ho fatto vivere più a lungo. Negli ultimi tempi era come un bambino smarrito, senza di me non avrebbe saputo che fare. Ma chi sta per anni vicino a un malato grave rischia di assorbirne i disagi e le sofferenze. Scrivere per me è stata una sorta di terapia, per consegnare ai lettori l'immagine di Nelo, ma anche, scrivendo, per salvare me stessa, in una sorta di auto-terapia».
Che tipo di persona era Nelo Risi?
«Innanzitutto un uomo bello: questa è la prima cosa che mi colpì quando lo vidi per la prima volta nel 1957. La sua era una bellezza fisica, sintomo di una bellezza interiore. Era un uomo onesto, coerente, retto, ironico, discreto, sensibile, generoso. Un uomo libero. Oggi mi manca molto, con lui se n'è andata una parte di me».
Che cosa ha comportato per lui l'Alzheimer?
«Innanzitutto la perdita delle parole, che per un poeta, che lavora con il linguaggio, è la cosa più terribile. Io gli leggevo i suoi versi, volevo che sapesse e riconoscesse quanto aveva fatto nella vita. Nei rari momenti di lucidità, si sentiva inutile, svuotato. Io gli dicevo: "Guarda che belle cose hai scritto!". E lui: "Non è vero, non ho mai scritto nulla!". Era doloroso doverlo contraddire. E allora in molti casi preferivo assecondare le sue visioni, la sua follia. Se mi diceva: "Guarda quella rondine sul termosifone!" oppure "Lo vedi quell'elefante seduto sulla poltrona del salotto?", gli dicevo di sì, gli davo ragione. Chi soffre di Alzheimer ha bisogno di essere confortato, rassicurato, accarezzato».
Lei interviene spesso nelle scuole per ricordare la tragedia della Shoah, ma ha anche denunciato la difficoltà dei giovani, e non solo, ad accettare la testimonianza dell'orrore. Come spiega questa realtà?
«Oggi si fa fatica a parlare di cose sgradevoli, perché viviamo nella società del divertimento, dell'anestetizzazione delle coscienze. Tutto ciò che scomoda e inquieta viene rifiutato. Non solo il ricordo di tragedie lontane, ma anche delle guerre, dei genocidi di oggi. Nella persecuzione degli ebrei da parte del nazismo ci furono una scientificità e una sistematicità che non la rendono paragonabile ad altre situazioni. Detto questo, però, noto oggi con preoccupazione l'insorgere di un razzismo legato alle migrazioni di massa. In Occidente la gente sembra spesso impreparata a gestire tale realtà. Prevalgono le reazioni istintive e irriflesse, le paure irrazionali, i pregiudizi violenti. Le due principali agenzie educative della società sono la famiglia e la scuola: prima la famiglia e poi la scuola. Ma spesso i genitori sono i primi a coltivare pregiudizi e preconcetti. Ecco allora perché il ruolo della scuola diventa fondamentale nei termini di una corretta educazione. Non dobbiamo mai dismettere la speranza, anche se a volte siamo tentati dalla disperazione».
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