Non basta il grande raduno di Oakland a salvare l’identità dei nativi americani

In “Non qui, non altrove” Tommy Orange restituisce con malinconia e rabbia la vita degli indiani di oggi



Forse è il caso che ci aggiorniamo. Forse, quando si parla di indiani d’America, è giunto il momento di lasciar perdere definitivamente lo stereotipo del cowboy buono e coraggioso interpretato da John Wayne che abbatte Sioux e Cheyenne con la pistola perennemente carica, o del “nativo” sicilian-americano Iron Eyes Cody che interpreta indiani capaci sempre e solo di coniugare verbi all’infinito nella Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta. Forse è il caso persino di scordarci di Kevin Costner, che balla coi lupi e combatte con i Lakota. È davvero il caso di lasciar stare gli avatar hollywoodiani, fare un bel refresh, e ripartire ad esempio da un libro come “Non qui, non altrove” (Frassinelli, pagg. 326, euro 18,90) dell’esordiente Tommy Orange, un malinconico quanto rabbioso romanzo che narra di 12 indiani che vivono a Oakland, in California, e della loro lotta, nemmeno tanto conscia, nel tentativo di salvare memoria, spiritualità, bellezza. Identità. Un libro moderno, una rappresentazione letteraria capace di restituire le esistenze degli indiani che vivono nelle città. Ma il libro narra anche una storia più antica, quella dell’oppressione iniziata con l’arrivo dei coloni in un continente che non era il loro e che hanno sepolto di vetro e cemento, cavi e acciaio, ricoprendo una memoria mai più restituita. Orange ha colmato questo vuoto, lui che è nato e cresciuto proprio nella città californiana, lui che - soprattutto -è di madre americana e padre di origini Cheyenne Arapaho, neolaureato all’Institute of American Indian Arts di Santa Fe, istituto che da qualche anno offre un programma di studi letterari indiano-centrico e che vorrebbe innescare una nuova ondata di letteratura nativa americana.

Orange non fa sconti alla sua gente, immerge i suoi dodici personaggi in un oggi crudele e spietato fatto di alcolismo, violenza, malattie, depressione, emarginazione. I suoi indiani “metropolitani” sono incollati a Internet, ai social network, alle stampanti 3D e ai droni mentre invece la loro cultura è sempre più distante, annacquata, travisata o inventata da altri, come Tommy Orange rende chiaro nello splendido prologo: “Chiunque altro da noi ci ha definiti e caratterizzati, e continua a calunniarci. Dalla cima del Canada e dell’Alaska fino al Sud America, gli indiani sono stati rimossi e poi ridotti a un’immagine decorata di piume. Le nostre teste campeggiano su bandiere, maglie e monete. In un primo momento erano sul penny, ancora prima che il nostro popolo avesse diritto di voto; ma queste monete, come le verità su ciò che è accaduto nella storia del mondo e come tutto il sangue versato nei massacri, sono ormai fuori corso”.

Così Orvil Red Feather, uno dei suoi personaggi, ha imparato on-line cosa significa essere un indiano “leggendo tutto quello che c’era da leggere su siti come Wikipedia, PowWos.com e Indian Country Today. Googolando roba tipo “Cosa significa essere un vero indiano”. Tony Loneman, 21enne affetto da Sindrome alcolica fetale (The Drome, la chiama lui) che gli deforma l’aspetto, venditore di erba con una madre in prigione, è “solo un indiano vestito come un indiano”. Per Opal Viola Victoria Bear Shield, l’identità nativa è il ricordo del periodo a cavallo tra anni ’60 e 70, quando sua madre porta lei e la sorellastra perché partecipino alla (ri)occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei nativi americani. Dene Oxendene, giovane documentarista “ambiguamente non bianco”, porta avanti un progetto in memoria di suo zio raccogliendo in un docufilm le storie dei nativi dell’area di Oakland. Edwin Black è da quattro anni seduto a fissare Internet finché lo chiamano per contribuire all’organizzazione del grande raduno indiano allo stadio. Tutti i dodici personaggi convergeranno alla festa, il Big Oakland Powwow. Ad attirare alcuni di loro sarà il montepremi di quella festa, 50 mila dollari, per le gare di danza. Una rapina con pistole realizzate con stampanti 3D. Il prezzo di molte vite.

Di certo, in tutte le dodici vite Orange insiste su questa resilienza nei confronti di un’identità antica, tribale, che non è un feticcio. “Inurbarci avrebbe dovuto essere il passo finale e necessario della nostra assimilazione, del nostro assorbimento, della nostra cancellazione, il completamento di una campagna di genocidio durata cinquecento anni. Ma la città ci ha reso nuovi, e noi l’abbiamo fatta nostra. Essere indiano non ha mai significato il ritorno alla terra. La terra è ovunque o da nessuna parte”.—

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