Ogni volta che la picchia Lenin piange Nell’India di oggi l’orco è il compagno

Il racconto autobiografico di Meena Kandasamy è una discesa negli inferi della violenza domestica 



«Ogni volta che ti picchio il compagno Lenin piange», dice il marito carceriere alla moglie, dopo averle sfregiato per l’ennesima volta il corpo a colpi di scopa o con il cavo del caricatore del suo Mac, con il bordo del bloc-notes, la cintura di pelle o il tubo di scarico della lavatrice. Dopo averla brutalmente stuprata fino a farla zoppicare per casa, devastata dal dolore. Piange, urla e si dimena, l’orco, sentendosi in colpa, ma non per le atroci sofferenze inflitte alla sua vittima, bensì per il senso di vergogna nei confronti dei suoi fari, i Marx, Lenin o Mao che non approverebbero se lo vedessero pestare la moglie a sangue. Perché lui – dice - da bravo comunista dovrebbe essere in grado di resistere a quelle che appaiono ai suoi occhi come continue provocazioni (un velo di rossetto, la telefonata a un amico, un’opinione diversa dalla sua). Eppure non ci riesce, e ogni giorno calpesta la moglie, in una rovente e umidiccia Mangalore, dentro la casa che avrebbe dovuto accogliere i sogni e i progetti di una giovane coppia unita da amore e ideali, e che invece si rivela una gabbia, un teatro di torture, soprusi, umiliazioni, fisiche e psicologiche. “Ogni volta che ti picchio” (Edizioni e/o, euro 17), della scrittrice e poetessa indiana Meena Kandasamy, che in queste 240 pagine parla in prima persona, è un racconto lucido e toccante dei meccanismi di manipolazione e di ricatto emotivo che possono generare una spirale di violenza domestica feroce. L’autrice lo fa in modo brillante, con parole taglienti e immagini fin troppo vivide che stringono lo stomaco, spesso accompagnate però anche da una sapiente – e sorprendente – ironia. Quasi a voler esorcizzare l’assurdità della tragedia vissuta, tanto dura da sopportare quanto difficile da spiegare, in una società, quella indiana, che ancora oggi è intrisa di misoginia. Una realtà in cui «viene bruciata una sposa ogni novanta minuti. Il tempo necessario per un carico in lavatrice». Ma, attenzione, i due protagonisti del romanzo non sono pària oppressi dalla miseria più nera o tristi inquilini di un matrimonio combinato. Sono il volto di un’India (apparentemente) moderna: intellettuali, istruiti, informati, benestanti. Lei è una scrittrice e poetessa. Lui è un professore universitario di credo marxista, ex guerrigliero maoista clandestino dedito alla battaglia armata. Si conoscono quando lei ha il cuore a pezzi, dopo una relazione segreta con un politico di successo finita male. Si incontrano infiammati dalla passione dell’attivismo politico. Lei vede in lui fascino, avventura, idealismo, acume, e lo sposa. E in quel momento inizia l’inferno. Lontana dalla famiglia di origine, rimasta a Chennai, entra in un vortice di violenze che mirano a rubarle l’identità: «Dovrei essere uno spazio vuoto. Uno spazio dal quale è stato cancellato tutto ciò che riflette la mia personalità. Come una casa dopo un furto». Si inizia dai capelli, che devono essere «domati e senza segni di disobbedienza», e dall’abbigliamento, sciatto e trascurato: «Devo avere l’aspetto di una donna che nessuno desidera guardare». Il passo successivo del marito consiste nel renderla invisibile al mondo: via il cellulare, via Facebook, via Internet. In seguito arrivano gli insulti volgari. E poi, le botte. Ogni scusa è buona per una cinghiata: dai fantasmi di amanti inesistenti al lavello non lavato. Viene chiusa in casa e non può chiamare nessuno, a eccezione dei genitori, che però le chiedono di sopportare e obbedire al marito, perché l’onta di una figlia che ritorna a casa dopo soli quattro mesi di matrimonio è troppo difficile da nascondere al giudizio altrui. E poi la barbarie dello stupro, inteso «come possesso, che racchiude la rabbia di un marito verso tutti gli uomini che possono avermi toccata, desiderata». Confessa la protagonista: «Ogni volta che mi picchia il terrore nasce dall’intuizione che tutto questo continuerà (...). La paura che lui cerca di instillare in me non è mai la paura del gesto in sé, ma della direzione in cui quel gesto può condurre. Ciò che vedo è ciò che sono costretta a prevedere». Fortunatamente, come ci racconta l’autrice fin dalla prima pagina, per lei quell’inferno è finito: è riuscita a scappare, è una sopravvissuta. Da scrittrice, voleva raccontare la sua storia e ce l’ha fatta. E ora porta avanti una battaglia - giudiziaria, ma soprattutto culturale - contro il suo ex marito e contro la violenza sulle donne anche attraverso le pagine di questo bel libro. —

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