Osvaldo Licini a Venezia un vento di follia totale solleva i suoi angeli ribelli

La Collezione Guggenheim omaggia il pittore marchigiano in un’ampia retrospettiva di Luca Massimo Barbero

IL PERCORSO



“Errante, erotico, eretico”, così definì se stesso Osvaldo Licini, voce poetica quanto malinconica, sempre in bilico tra gli opposti, dunque quasi inafferrabile, della pittura italiana della prima metà del ‘900. A 60 anni dalla morte dell’artista e dal Gran Premio per la pittura a lui conferito dalla XXIX Biennale di Venezia del 1958, la Collezione Peggy Guggenheim ha voluto ricordare il grande maestro marchigiano con una retrospettiva dal titolo “Osvaldo Licini. Che un vento di follia totale mi sollevi” a cura di Luca Massimo Barbero, che resterà aperta fino al 14 gennaio prossimo.

Formatosi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna insieme a Morandi e anche a molti artisti futuristi, Licini fin da subito sentì stretti gli orizzonti nazionali. Scapperà più volte a Parigi dove sperimenterà la pittura di paesaggio post-impressionista e fauve, aprendosi agli sviluppi internazionali dell’arte pittorica. Proprio in uno dei suoi viaggi nella capitale francese incontrerà l’artista svedese Nanny Hellstrom, che nel 1925 diventerà sua moglie e con la quale visiterà i paesi nordici. Tuttavia fino agli anni ’30 avrà non poche difficoltà a ottenere il passaporto poiché segnalato come sovversivo dal regime fascista.

In arte come nella vita Licini resterà sempre indipendente, “poeticamente” controcorrente si potrebbe dire. Non aderirà mai a movimenti o a gruppi artistici, mantenendo sempre una propria concezione del tutto personale dell’arte, che consoliderà isolandosi nel borgo natale di Monte Vidon Corrado. Non a caso nel tentativo di evadere da un’Italia artisticamente dominata sempre più dal realismo così caro al regime fascista, Licini si rifugerà nella non figurazione, frequentando il composito mondo culturale milanese degli anni '30, centro propulsore dell’astrattismo italiano e del razionalismo.

Ma anche qui il linguaggio di Licini è atipico, attento alla geometria e al contempo immerso nell’intensità compositiva dei colori. È il periodo delle “archipitture”: la sua però è una geometria che è diventata “sentimento”, intrisa di lirismo, imperfetta, imprecisa, non traduce la realtà ma si fa poesia.

Elegante e discreto al contempo, come la sua pittura, Licini sceglie in qualche modo il margine e non la ribalta. Negli anni ’30, tuttavia, due incontri saranno per lui fondamentali: quello con il critico d’arte Giuseppe Marchiori, che diverrà un suo grande sostenitore, e quello con il filosofo Franco Ciliberti fondatore della rivista “Valori primordiali”. Sono gli anni in cui dalle geometrie imperfette cominciano a emergere nella sua pittura lettere e numeri, enigmatiche cifre primordiali che segnano il passaggio dal razionalismo alla trasfigurazione, dall’astrazione alla figurazione in una sorta di terra di mezzo dove vedranno la luce le sue invenzioni poetiche più belle e intense: dall’Olandese volante all’uomo di neve, dalla serie lunare - ironica e lirica al contempo - delle Amalassunte (volti e mani di donne immersi nel blu celeste, simili a stelle) a quella eroica e antieroica al tempo stesso degli angeli ribelli, creature alate e impure, celesti e umane, diavoli-angeli in bilico sul margine dell’abisso tra inferno e paradiso, simboli irrisolti fatti di male e di bene che costelleranno la poetica liciniana fino agli anni ‘50.

Una fotografia scattata in occasione della Biennale del 1958 ritrae Peggy Guggenheim davanti a un quadro di Licini, attestando la curiosità della mecenate per il mondo poetico dell’artista. Nella mostra a lui dedicata 60 anni dopo, proprio nella casa-museo di Peggy, oltre cento opere ripercorrono il dirompente e tormentato percorso di questo straordinario e forse ancora non sufficientemente conosciuto autore, che mise sempre al centro della sua ricerca la pittura. Scriverà: «La pittura è l’arte dei colori e delle forme, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione, ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia». —

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