Pasolini contro Cefis, il duello simbolo della lotta al Potere e alle mezze verità

Giovannetti raccoglie l’eredità del poeta corsaro nel ricostruire il mosaico di misteri, golpe e stragi



Due facce della stessa medaglia. Due friulani che, ciascuno a modo loro, sono “prodotto” e simbolo delle contraddizioni della storia italiana del Novecento: le brutalità del fascismo perpetrate in particolare nelle terre istriano-dalmate, le foibe e Porzus, grande macchia dell’epopea partigiana e del comunismo tricolore. Per poi arrivare agli Anni di Piombo, alle “bombe di Stato”.

Divisi da una barricata – non solo ideologica, ma anche e soprattutto umana e culturale – c’erano loro: il casarsese Pier Paolo Pasolini e il cividalese Eugenio Cefis. Pasolini, il poeta corsaro che vide il fratello Guido ucciso proprio a Porzus. Cefis, fucilatore di partigiani ai tempi dell’occupazione fascista dell’ex Jugoslavia e poi lui stesso partigiano badogliano. Da una parte il poeta corsaro, dall’altra l’ex presidente di Eni e Montedison, quello che l’autore definisce, «grande elemosiniere della politica, intento a coltivare progetti autoritari, intrecciando la sua trama sull’ordito delle lobbies politico-finanziarie, della Massoneria occulta e degli ambienti militari».

Nelle 685 pagine di “Malastoria” Giovanni Giovannetti affronta la sfida improba di rimettere insieme le tessere di un mosaico che a decenni di distanza resta ancora in parte incompleto. A raccoglierne i primi tasselli era stato lo stesso Pasolini sulle colonne del Corriere della Sera. Indimenticabile l’incipit – “Io so” – del suo articolo più famoso (era il novembre 1974), in cui afferma di conoscere i nomi dei responsabili delle stragi rientranti in quella che poi sarà definita “strategia della tensione”, degli ideatori di “golpe”, dei potenti spalleggiati dalla Cia, dei depistatori di professione. I nomi di chi mette le bombe per ripristinare l’ordine. Un grido d’allarme per denunciare il rischio di una deriva autoritaria.

Nell’estate del ’75, poco prima dell’assassinio di Pasolini, il Corriere passa nelle mani dei Rizzoli, di cui il presidente di Montedison è tra i finanziatori, più o meno occulti. In quel periodo l’intellettuale casarsese sta portando avanti la sofferta stesura di Petrolio, il suo libro-inchiesta (che uscirà postumo) sui poteri forti: su quelle pagine Cefis, detto “Troya”, è uno dei protagonisti di spicco. Il paradosso, evidenziato da Giovannetti, è che Pasolini stava accumulando documenti e notizie sull’uomo che era diventato, di fatto, il suo nuovo editore. L’uomo che ai vertici dell’Eni aveva beneficiato più di tutti dell’incidente – sempre che di evento accidentale si tratti – costato la vita a Enrico Mattei.

Quello di Mattei è uno tra i misteri italiani di cui non si è ancora riusciti a trovare una verità certa e condivisa. Solo mezze verità come per Vergarolla nel 1946, Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, fino ad arrivare, nel 1980, a Ustica e Bologna. Ma le cortine fumogene ancora non si sono diradate anche attorno a Peteano a Gladio, o ai golpe, organizzati o “solo” minacciati, oltre che, ovviamente, attorno all’uccisione dello stesso Pasolini, con la sua controversa verità giudiziaria. Fino a dove sarebbe potuto arrivare nell’incalzare i burattini e i burattinai di questo Potere – rimarca Giovannetti –, se non lo avessero fermato in quella notte buia a Ostia?

Cefis è visto come il sostenitore di un colpo di Stato non violento, di un nuovo modello di capitalismo tecnocratico, uno scenario in cui l’egemonia è totalmente nelle mani delle grandi concentrazioni finanziario-affaristiche, magari all’insegna della flessibilità del lavoro. Suona decisamente familiare anche all’alba del 2021. E ancora, Cefis referente occulto della P2. Cefis e i suoi rapporti con Andreotti. Cefis precursore dell’idea di partito-azienda berlusconiano. Pasolini vede nel cividalese un “eroe” diabolico, «come gli eroi di Balzac e Dostoevskij – scrive in Petrolio –: conoscono cioè la grandezza sia dell’integrazione che del delitto». —



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