Per raccontare Michelangelo ho immaginato la sua voce

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Gli occhi inquieti del David, la barba di Mosè che turbò Sigmund Freud, il dito di Dio che sfiora quello di Adamo. Basterebbero questi tre frammenti d’arte per raccontare il genio di Michelangelo. Ma Costantino D’Orazio ha voluto spingersi più in là. Ascoltando la voce del Buonarroti, è riuscito a mettere a fuoco il connubio perfetto tra la vita e la creatività dello scultore e pittore fiorentino.
Ha preso forma, così, “Io sono fuoco” (Sprling & Kupfer, pagg. 208, euro 18), una sorta di biografia non autorizzata del genio Michelangelo. Dove è la voce stessa del Buonarroti a raccontare. E come aveva già fatto con Caravaggio, Leonardo e Raffaello, Costantino D’Orazio, curatore del Museo d’arte contemporanea di Roma, scrittore e conduttore di programmi televisivi e radiofonici dedicati all’arte, ha voluto ripercorrere la vita di un genio irrequieto, sanguigno, dotato di un talento purissimo, parlando in prima persona.
«Mi tremavano le gambe all’idea di raccontare Michelangelo - spiega Costantino D’Orazio -. Dovevo trovare la voce giusta, far parlare un uomo che è morto oltre 400 anni fa. Per fortuna ci ha lasciato molte lettere inviate ai familiari, agli amici, a chi gli commissionava le opere. E il tono che usava era molto diretto, colloquiale. Esprimeva opinioni, timori. Soprattutto, diceva le cose senza usare mezze misure. In modo diretto, nel bene e mel male».
Doveva creare un Michelangelo per il terzo millennio?
«Senza dimenticare che, quando comincia il suo dialogo con il nipote Leonardo, è ormai oltre gli 80 anni. In ogni casa, credo mi sia servita molto l’esperienza che ho fatto nel mondo dell’arte contemporanea. Ho lavorato con Jannis Kounellis, Mario Merz, e non credo che gli artisti del passato si siano trovati ad affrontare problemi tanto diversi da quelli del presente. Certo, il linguaggio degli scultori e dei pittori è cambiato, ma l’atteggiamento che li porta a confrontarsi con la realtà creando opere d’arte penso sia sempre lo stesso».
È morto a quasi novant’anni...
«Per avvicinarmi al suo modo di pensare mi sono servite molto le parole di Marisa Merz, l’artista torinese che si avvicina, ormai, ai novant’anni. Mi sono ricordato delle riflessioni sul fatto che, a un certo punto, il corpo non è più in grado di rispondere alle sollecitazioni della mente. E di quanto questa lontananza tra volere e fare sia frustrante».
Buonarroti, vedendo avanzare la vecchiaia, bruciò tutti i suoi disegni...
«Racconto l’episodio proprio pensando a quanto dice Marisa Merz. Michelangelo sentiva la Morte avvicinarsi. E non voleva lasciare dietro di sé abbozzi di opere, progetti incompleti che non sarebbe più stato in grado di ultimare. Così preferì farli sparire».
Le sarà costata una bella fatica questa biografia...
«Non ci ho messo tantissimo per scrivere “Io sono fuoco”. Nove, dieci mesi. Però, anche se sono cresciuto ammirando le opere di Michelangelo, alle spalle del libro c’è un gran lavoro di. ricerca, di studio».
Un’opera come il David, o il Mosé, parlano a tutti. L’arte contemporanea, invece...
«Spesso non abbiamo gli strumenti per capirla. Pensiamo alla scuola: molti insegnanti di Storia dell’arte riescono a svolgere il programma al massimo fino agli inizi del ’900. E, anche se con le nuove generazioni la situazione sta un po’ cambiando, è difficile amare qualcosa che si conosce in modo approssimativo. O non si conosce proprio».
La sperimentazione non ha mai incassato grandi entusiasmi.
«Pensiamo alla Pietà Rondanini: delle opere di Michelangelo è quella che fa pensare di più alle avanguardie. E nel 1500 non era apprezzata. Oggi potrebbe stare benissimo in un museo d’arte contemporanea. E Leonardo? Prima dei 42 anni veniva rifiutato da tutti».
Ciò non toglie che Michelangelo è amato ben più di Maurizio Cattelan.
«Vero. Ma sono convinto che oggi un Michelangelo userebbe lo stesso linguaggio di Cattelan, Kounellis, Mimmo Palladino. Un’artista del terzo millennio deve saper comunicare, oltre che creare».
La tivù può aiutare a conoscere l’arte?
«L’arte è sempre stata intrattenimento. Ed è giusto che la tivù italiana capisca quanto può attirare il pubblico. In Francia, in Inghilterra, ci sono già molti programmi che parlano della pittura, della scultura, con un linguaggio popolare. Quello della proverbiale casalinga di Voghera, per intenderci».
Hanno ancora senso le grandi mostre?
«Nel mondo d’oggi dominato dalla realtà virtuale, dai social network, l’arte è una delle poche esperienze, come il teatro, che ci permette di usare tutti i nostri sensi. Accontentarsi di esporre una riproduzione digitale sarebbe sbagliato. Nell’era dei “fake”, delle cose fasulle, ci verrebbero negate emozioni vere».
Sta scrivendo un nuovo libro?
«Il mio primo romanzo, uscirà a maggio. Sarà ambientato in un luogo d’arte segreto che si trova a Roma. E che, spero, la gente potrà visitare sempre di più per ammirarne la bellezza».
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