Perché dovremmo lavorare e risparmiare di più: il razionalismo puritano di James M. Buchanan

L’editore Liberilibri pubblica un saggio dell’economista premio Nobel nel 1986

Giovanni Tomasin
James M. Buchanan
James M. Buchanan

Il fine settimana del 3-4 gennaio del 1987 sono in programma quattro partite dei playoff del football americano. L’economista James M. Buchanan (1919 - 2013), appassionato della palla ellittica, vorrebbe seguirle tutte quante ma il senso di colpa lo rode «all’idea di starmene seduto su un divano per quindici ore in due soli giorni». Piglia allora un bel sacco di noci, raccolte poco prima, e si mette a spaccarle mentre guarda le partite: si accorge così che mettersi «al lavoro», rendere produttivo l’ozio, fa svanire il senso di colpa. A quel punto, invece di rivolgersi un buon analista, Buchanan pensa bene di trarre dalla sua ansia una lezione etica da impartire al resto dell’umanità.

Muove da questo aneddoto l’argomentazione di “Perché dobbiamo lavorare di più e risparmiare di più – Il valore economico dell’etica del lavoro” (84 pp. 16 euro), denso volumetto da poco pubblicato dall’editore Liberilibri. Fondatore della teoria della “Public Choice”, Buchanan (1919 - 2013) è stato insignito del premio Nobel nel 1986 e può essere a buon diritto considerato uno degli economisti più influenti – ancorché non il più noto – del mondo contemporaneo. In questo saggio, composto di tre lezioni, Buchanan si allontana dal tema delle istituzioni per indagare quali siano negli individui le implicazioni economiche dell’etica, e in particolare quali siano le norme etiche economicamente vantaggiose.

Nella prima lezione tratta l’etica del lavoro: Buchanan argomenta come sia oggettivo che lavorare di più arricchisca tutti, poiché un maggiore numero di ore lavorate – secondo la lezione di Adam Smith - aumenta l’estensione del mercato. Nella seconda lezione, l’economista passa all’etica del risparmio: di contrasto alla spinta per la spesa, per lui una «illusione keynesiana», Buchanan constata – ancora oggettivamente – come un dollaro risparmiato oggi si traduca domani in investimenti sui beni di produzione. «I fondi risparmiati – osserva – rientrano nel flusso circolare in quanto sono messi a disposizione di persone e istituzioni che il utilizzano per acquistare beni di produzione (corsivo dell’autore ndr)». Fanno fruttare il capitale. E quindi, argomenta ancora Buchanan, nel tempo portano un’altra estensione del mercato. Un’immagine impiegata dall’autore della prefazione italiana, il politologo e fondatore dell’Istituto “Bruno Leoni” Alberto Mingardi, fotografa con precisione lo sviluppo così inteso: persone che oggi non possono dirsi ricche guardano la tivù su schermi ultrapiatti che avrebbero acceso le brame dei ricchi degli anni Settanta.

Nella terza lezione Buchanan conclude – per amor di teoria – che sulla carta potrebbe essere una buona idea «pagare dei predicatori» perché diffondano tra la gente questi buoni principi d’etica borghese o «puritana», come preferisce dire senza addentrarsi troppo nella weberiana questione di capitalismo ed etica protestante. Lo prova oggettivamente, di nuovo, spiegandoci – e qui parodizziamo - che pagare venti centesimi un predicatore perché convinca il proprietario di una mela a donarcela è un miglior investimento rispetto a pagare al proprietario quaranta centesimi, il costo della mela. Purtroppo, osserva, «pagare i predicatori» è un principio difficile da applicare, poiché nella realtà la maggior parte dei predicatori fa tutt’altra predica.

È proprio nel parlare dei cattivi predicatori odierni che Buchanan dismette il suo argomentare tecnico e serrato, lasciandoci finalmente intendere quali discorsi e soggetti in cuor suo ritenga oggettivamente economicamente svantaggiosi, e soprattutto per chi. Scrive: «Purtroppo (…) i nostri predicatori, i nostri moralisti, istituzionalmente autorizzati o auto-proclamatisi tali, non si limitano a queste massime di prudenza all’antica: ci dicono anche che dobbiamo avere compassione dei meno fortunati e aiutarli, fino al punto di vendere ciò che abbiamo accumulato e dare a chi ha bisogno, ci dicono che dobbiamo unirci agli infelici della Terra nella protesta contro coloro che producono, che dobbiamo smettere di perseguire il valore economico, che dobbiamo prenderci il tempo per odorare i fiori, per usare i poteri coercitivi della politica al fine di proteggere la natura dallo sfruttamento economico, per appoggiare le maggioranza politiche nella tentata esazione di tributi dalla minoranza che pratica davvero quelle virtù puritane di cui parlavo».

Ora, il passaggio al registro squisitamente politico da parte dell’economista non illumina soltanto la visione del mondo che sottostà al discorso tecnico nel resto del libro. Offre anzi l’occasione di riflettere sul lento cambio di paradigma avvenuto in Occidente dall’avvento degli anni Ottanta, quando idee che avevano simile sottotesto ideologico – ci si passi il termine – sono state assorbite più o meno acriticamente negli apparati tecnici, pubblici e privati, nazionali e internazionali. La stessa Public Choice Theory di Buchanan, che gli valse il Nobel, è se vogliamo tra le ragioni per cui così tante pubbliche istituzioni sono state riformate, negli ultimi trent’anni, a immagine e somiglianza dell’azienda privata.

La teoria considera ogni attore istituzionale, secondo i principi economici, come un attore razionale mosso da interessi egoistici, riuscendo a mostrare una meccanica reale nella trama del potere nelle odierne società borghesi. La pretesa di trattare le scienze sociali come scienze esatte finisce però per astrarre la contingenza storica dell’homo oeconomicus, facendone al contempo il più naturale e il più razionale tra gli ordini sociali, relegando quindi il resto della storia umana a cattiva economia. Come ci spiega Mingardi in prefazione, è il mercante l’approdo necessario dell’umano.

Si tratta di concezioni del mondo condivise a livello di saggezza popolare ormai da tanta parte della società, informano il pensiero degli apparati, si trovano un po’ ovunque in politica. Nel panorama odierno anche le nuove destre “anti-sistema” danno per scontato questo orizzonte, pretendendo soltanto di applicare senza infingimenti la legge del più forte, sul mercato.

Venire a capo del dilemma antropologico richiederebbe un salto di secoli. Basti qui ricordare che Buchanan riconosce il suo debito intellettuale verso l’economista neoclassico italiano Maffeo Pantaleoni (1857-1924). Pantaleoni così si esprimeva pensando ai propri simili: «Tutto considerato mi sembra ovvio che le classi che hanno redditi minori sono notevolmente deficienti per qualità in confronto delle altre, in modo che questa deficienza è causa del minor reddito e non già il minor reddito causa della deficienza» (si legga a proposito di quella stagione il lavoro di Clara Mattei “Operazione Austerità”, pubblicato da Einaudi nel 2022).

C’è in questo ostinato sostare nel darwinismo sociale positivista di fine Ottocento una volontà di rimuovere l’esperienza del Novecento e il pensiero che ha generato, soprattutto in Europa. Lo riconosce indirettamente Buchanan quando scrive nell’introduzione: «Spero di riuscire a dimostrare che “lavorare di più” può essere ed è un bene per tutti noi, “bene” per quanto riguarda le nostre preferenze, quali che siano, e a prescindere da qualsivoglia criterio mutuato dall’esterno, da qualsivoglia auto-consacratosi filosofo o dai presunti dettami di una divinità trascendentale».

Considerando vita e pensiero di Buchanan, non sorprende che persegua il proprio interesse egoistico quando si sofferma sull’idea di pagare i predicatori. Il libro qui considerato risale agli anni Novanta, ma il nostro autore ha predicato per decenni, in veste di accademico, con sempre maggiore influenza. Lo troviamo infatti, come i sodali della scuola di Chicago, a dare consigli al Cile di Pinochet negli anni Ottanta. Oppure ancora nella Virginia degli anni Cinquanta, come scrive nel libro del 2017 “Democracy in chains” la storica Nancy McLean (volume liquidato alla voce “complottismo” in prefazione). Quando la spinta alla desegregazione nel vecchio stato schiavista arrivò al punto di aprire ai neri le scuole pubbliche, fino a quel punto riservate ai bianchi, Buchanan propose una soluzione strettamente tecnica delle sue. Ovvero un sistema di scuole privato ma finanziato dal pubblico, così che i bianchi che non intendevano vedere i propri figli in classe con dei neri potessero mandarci i propri rampolli, senza dover intaccare i risparmi accumulati con tanta virtù.

Conclusa la lettura, si è pervasi dalla voglia di indugiare in modo economicamente svantaggioso. Forse perfino d’odorare dei fiori. Va riconosciuta però all’editore la scelta meritoria di pubblicare il testo, prezioso per chi desideri esercitarsi nella critica del discorso attraverso cui - come c’avvisò Adamo Smith - l’interesse dei pochi veste la maschera della necessità per tutti. —

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