Pervaso da lampi di surreale follia

“Elle” è un thriller anarchico e imprevedibile con una grande Isabelle Huppert
Di Beatrice Fiorentino

"Elle". Lei. Ovvero Michèle Leblanc, algida ed enigmatica imprenditrice di successo alla guida di un'azienda di videogiochi per adulti che ha il volto di una straordinaria Isabelle Huppert, candidata con questo ruolo per la prima volta all'Oscar come migliore attrice. Ed è proprio grazie alla presenza della Huppert, che a differenza di altre colleghe americane che hanno declinato l'invito ha invece spinto per avere la parte, se il settantenne regista olandese Paul Verhoeven ha deciso di spostare il set nella libertina Francia, trovando nei quartieri parigini dell'alta borghesia l'ambientazione ideale per far da cornice a una storia difficilmente collocabile entro i rigidi canoni sia dell'establishment che di certo benpensantismo bigotto a stelle e strisce. Definire "Elle" non è affatto semplice, con quel suo andamento spiazzante che passa con ondivaga disinvoltura dalla suspense del thriller ai toni umoristici della black-comedy. Premiato ai Cesar come miglior film dell'anno, snobbato a Cannes dov'è stato incomprensibilmente relegato all'ultimissimo giorno di programmazione, il nuovo film di Verhoeven è un oggetto anarchico e imprevedibile, spassoso, irriverente, attraversato da lampi di surreale follia. Un racconto spietato e assolutamente geniale che non si accontenta di essere - come potrebbe suggerire il titolo - un semplice "ritratto di donna", ma è anche l'occasione per squarciare il velo d'ipocrisia che pesa sulla società borghese contemporanea.

La protagonista, Michèle Leblanc, non è una donna qualsiasi. Si mostra sempre sicura di sé, lucida, estremamente pragmatica. Non batte ciglio neppure quando viene aggredita e stuprata da uno sconosciuto a volto coperto all'interno della sua abitazione. Non chiama la polizia, non chiede aiuto, si limita piuttosto a far ordine in casa: getta nella pattumiera il vestito strappato, raccoglie i cocci delle stoviglie cadute a terra, si concede un bagno caldo per rimuovere i brutti pensieri prima di raggiungere gli amici al ristorante. Perfettamente coerente con il modello dell'eroina verhoeveniana, Michèle è padrona indiscussa della propria sfera emotiva come di quella sessuale, e non si concede all'ossessiva ricerca di approvazione da parte di chi la circonda: l'ex marito insicuro, la madre velleitaria che insegue la sempiterna giovinezza, il figlio "bamboccione", l'amante passeggero che poi è il marito della migliore amica e molti altri personaggi di contorno che la amano o la odiano. Parte del suo fascino risiede anche in un lato più oscuro e inconfessabile attratto dall'impeto della violenza, impulso che è il frutto di un trauma nascosto tra le pieghe di un'infanzia interrotta e che emerge quando tra la donna e il suo violentatore si innesca un gioco perverso, i cui ingredienti sono il desiderio e la lotta per il dominio e la sottomissione.

Non c'è titolo della sua filmografia, dai più remoti "Fiore di carne" o "Kitty Tippel" ai più chiacchierati "Basic Instinct" o "Showgirls", in cui Verhoeven non si sia spinto oltre i confini della morale mettendo spesso in relazione - non senza ironia - il sesso con la violenza e con la morte. Ma mai come oggi le sue perlustrazioni dell'oscuro fascino del desiderio hanno raggiunto vette altrettanto libere, dissacranti e perfino comiche. Mai come ora il suo messaggio è stato altrettanto ferocemente politico. Verhoeven fa letteralmente a pezzi l'istituzione familiare e la falsa morale borghese e cattolica distruggendola dall'interno, senza risparmiare niente e nessuno. Eppure, al tempo stesso, non infligge giudizi né condanne. Perché forse, alla fine, gli esseri umani non sono altro che fragili attori di una crudele commedia, grottesca come solo la vita a volte sa essere.

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