Pierluigi Cappello, parole e storie per non arrendersi alla realtà

di Alessandro Mezzena Lona
La poesia non può nulla contro un F-16. Si deve arrendere al rombo assordante dell’aereo da combattimento. Viene zittita dal passaggio ingombrante di quel siluro che solca il cielo con la prepotenza di chi porta la legge del più forte. Come la lava travolge la ginestra, e la riduce in polvere, così la macchina da guerra calpesta la fragilità di un soprassalto lirico. Lo rende ridicolo, ridondante, inutile.
Ed è così nella vita di ogni giorno, ci ricorda il poeta Pierluigi Cappello. In un mondo dove ipermercati e paesi dei balocchi stringono d’assedio chi sogna di guardare la realtà con occhi un po’ meno distratti. Come il bombardiere in volo verso il luogo dove dovrà sganciare il proprio carico di morte, quegli strumenti inventati dal mondo dei consumi hanno la funzione di spianare la strada al vitello d’oro. Imponendo slogan, frasi scientemente utili, un linguaggio che non ha più anima. E che finisce per far risultare le parole della poesia uno strumento per iniziati. Un blaterare alieno.
E allora, proprio per questo, il poeta si aggrappa alle parole. Recupera dall’oblio la bellezza della prosa che non deve inchinarsi alla forza geometrica di una storia. Si lascia andare al gusto di osservare e trasformare, poi, in racconto i pensieri che gli frullano per la testa. Nasce così un libro appartato, prezioso come “Il dio del mare” del poeta friulano Pierluigi Cappello, che esce domani. Una raccolta di pagine senza un centro di gravità apparente, che la Rizzoli-Bur ha chiuse dentro un volumetto (pagg. 113, euro 9) accompagnandolo alla prefazione di Antonio Prete “La poesia, prima e oltre la parola”.
Non è la prima volta che Cappello abbandona i versi per dedicarsi alla prosa. Nel 2013 aveva raccontato i momenti più importanti e dolorosi della sua vita nello splendido libro “Questa libertà”. Adesso, però, il poeta friulano si concede il piacere di ondeggiare tra frammenti di autobiografia e riflessioni sulla realtà, sulla letteratura, sul ruolo del poeta in una società che vive lo scrivere in versi come un’attività del tutto estranea.
“Il dio del mare” afferma «la necessità e la bellezza della prosa», scrive Antonio Prete. E Cappello mette, fin dalle prime pagine, l’accento sul fatto che «passeggiare certe mattine in campagna, quando la luce è calva come un sasso di fiume, non è soltanto un esercizio di stile». Perché non solo può misurare con il metro dei colori d’autunno «la mia potenza, la mia insufficienza di uomo», ma può soprattutto osservare da vicino «l’altezza afflitta del cipresso, la scapigliatura di erbe lunghe... la gentilezza slava delle betulle».
E se lo scrivere versi, per Cappello, «è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un milligrammo in meno», esercitare l’arte della prosa significa valicare il confine che separa la realtà dalla letteratura. Come quando confessa di avere scoperto il fascino della poesia mentre l’insegnante leggeva pagine che raccontavano dei Franchi e di Re Carlo, di Rolando e Roncisvalle. «Quei versi che dicevano di amicizia e di guerra, quelle parole scritte novecento anni prima, di molte delle quali non conoscevo nemmeno il significato, mi erano piovute dentro da una distanza monumentale, e della mia stessa sorpresa io ero diventato lo spettatore contemplante».
La poesia, i libri possono aiutare a mettere a fuoco una tragedia indicibile come quella di Auschwitz. Così, la memoria del poeta corre alla nona bolgia dell’Inferno di Dante. Al canto ventottesimo della Divina Commedia dove i seminatori di discordia, tra i quali si riconoscono Maometto e il poeta Bertran de Born, si presentano agli occhi del lettore sconciati nel corpo. Uomini-cosa, come quelli passati per il camino dei campi di sterminio, che ci fanno capire quanto sia facile per l’uomo «avvicinarsi alla vertigine del male assoluto».
Del resto, a ben pensare, che ricordo rimane dei dannati della Grande guerra? Immagini di uomini che hanno assunto il colore del fango, impregnati dell’orrore delle trincee. Corpi senza più consistenza, che possono rivivere solo nelle parole di chi si appresta a raccontarli. E dal momento che «ogni libro è una voce in attesa di un corpo», dice Cappello, lo scrittore diventa il medium capace di evocare storie. Spetta al lettore, poi, il compito di fare in modo che quelle parole non rimangano spettri inquieti. Ma si trasformino in emozioni vive, sospese tra la realtà e la pagina scritta.
alemezlo
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