“Porcile” a Spoleto tra pianti e lamenti
SPOLETO. Tutti piangono, come per una forma di dolorosa impotenza davanti a un mondo di cui sono inesorabilmente prigionieri, ormai parte di un sistema basato su un sovvertimento di valori e spinto dall'avidità e desiderio di ricchezza: un vero “Porcile”, come Pier Paolo Pasolini intitola questo suo forte, estremo e icastico, persino poetico testo teatrale (di cui fece anche una libera trasposizione cinematografica), in scena a Spoleto ancora oggi per la regia di Valerio Binasco in collaborazione con lo Stabile della Toscana e quello del Friuli Venezia Giulia, che lo programmano per la prossma stagione.
E questi pianti, lamenti o grida stridule, sono la cifra di una lettura registica che cerca di cogliere appunto il disagio umano, di dare un valore esistenziale ai personaggi. I protagonisti sono Julian di Francesco Borchi, che sarà la vittima di un'impossibile, dolorosa ricerca di sé (è sua una delle battute iniziali: «Io non so chi sono» il giorno in cui compie 25 anni e il rannicchiarsi in posizione fetale sotto una panca); Ida di Elisa Cecilia Langone che vorrebbe riportarlo, convertirlo alla normalità (perchè c'è anche tutto un non detto riguardo alla diversità sessuale). Poi il padre di Julian, industriale tedesco erede dei capitalisti dalla testa di maiale di Grosz, ben dipinto da Mauro Malinverno, come la moglie di Alvia Reale e il socio cinico con un passato nazista di cacciatore di ebrei Herdhitze di Fulvio Cauteruccio. In questo dramma borghese fine anni ’60 il degrado della famiglia è quello di tutta la società, ambientato in Germania, come luogo emblematico delle trasformazioni del Novecento.
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