Quando da Trieste all’Istria passione e politica univano il mare allo sport

Apre oggi, 3 agosto, in via Torino, una rassegna a cura di Piero Delbello e Claudio Ernè con foto, stampe e cimeli per raccontare il legame dei giuliani con le attività agonistiche

TRIESTE «Nessuno sport, tranne quello della vela, godette nella Venezia Giulia sin dagli inizi del Novecento, e anche prima, altrettanto favore del canottaggio. Ciò era dovuto principalmente a condizioni ambientali: un paese abitato soprattutto lungo le coste, ampiezza di golfi favoriti per quasi tre quarti dell’anno da una quiete eccezionale di venti e di mare, confidenza naturale, nativa, coi remi e con l’acqua». L’istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini spiegava così l’inclinazione alla pratica del canottaggio lungo le coste della Venezia Giulia, e continuava: «Appare evidente come i triestini e gli istriani, di costituzione alquanto alta e di temperamento mediterraneo, sì, ma mediterraneo nordico, fossero particolarmente dotati per il canottaggio». Ci vedeva insomma un imprinting fisico, come se nel Dna dei giovani del litorale ci fosse una predestinazione per il successo in questo sport.

Del resto Quarantotti Gambini conosceva molto bene il mondo delle società remiere e lo descrisse in quel suo magnifico libro che è “L’onda dell’incrociatore”, pagine che sembrano quasi mosse dal vento che increspa l’acqua su cui fila veloce una barca appena uscita dalla rimessa. Come leggero e filante sembra ancora, a distanza di giusto novant’anni da quella storica impresa, lo scafo con cui i ‘quattro con’ della Pullino vinsero la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam, e che si può ammirare da oggi nella mostra “Mare & sport in Venezia Giulia, Fiume e Dalmazia 1870-1950”, insieme a fotografie, coppe, medaglie e altri cimeli, come la giacca azzurra della nazionale italiana indossata alle Olimpiadi del 1948.

Realizzata dall’Irci per la cura di Piero Delbello e Claudio Ernè, autore di gran parte dei testi del catalogo, la rassegna ha l’intento di far conoscere la nascita, lo sviluppo, la storia e i risultati conseguiti dalle associazioni sportive della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia dalle loro origini, nella seconda metà dell’Ottocento, agli anni Cinquanta del secolo scorso, e si lega idealmente alla Barcolana del cinquantenario, per arricchire l’insieme degli eventi collegati alla più importante manifestazione velica cittadina. La ricordata voce di Quarantotti Gambini è solo una di quelle che fanno da sestante per muoversi tra le due sale al pianoterra del museo di via Torino.

Ottimo portolano tra tanti argomenti è il catalogo della mostra, realizzato col contributo della libreria antiquaria Drogheria 28. Vi si può trovare in apertura l’intervento del presidente dell’Irci, Franco Degrassi, che ricorda come la componente nazionalistica segnasse profondamente l’associazionismo sportivo del litorale, almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale, al punto che le autorità austroungariche contrastarono e addirittura sciolsero le società ritenute più eversive.

Gli anni Trenta furono un periodo di grande fermento, di importante sviluppo tecnico e di prestigiosi risultati, durante il quale le società nautiche giuliane costituiscono significativa fonte di medaglie alle Olimpiadi e nei Campionati nazionali ed internazionali. Difficile scordare gli allori della “Libertas” di Capodistria, della “Pullino” di Isola, della “Eneo” di Fiume, della “Pietas Julia” di Pola e della “Diadora” di Zara. Dopo la seconda guerra mondiale tutte le società dei territori passati alla Jugoslavia cesseranno la loro attività, tranne l’Arupinum’di Rovigno, mentre, grazie a una decisione del Comitato olimpico internazionale, la Libertas poté rappresentare ancora una volta l’Italia alle Olimpiadi del 1948.

Ma non ci sono solo gli allori sportivi. Le fotografie di fine Ottocento, o le cartoline spedite dall’America da un collezionista di origine istriana, rendono conto di un mondo che viveva il mare come svago e divertimento. Come dimostra la foto dei ragazzini imbustati in due marmitte che remano con chissà quali arnesi, c’era la voglia di godere il mare e la scoperta, comune nella metà dell’Ottocento a tutte le rive e le coste italiane, che quella distesa d’acqua non serviva solo per trasportare le merci o per la pesca, le saline, ma si poteva anche viverla per il proprio piacere.

Fu quasi un’illuminazione, un mondo nuovo si apriva, fatto di onde e di tuffi, ma per arrivarci fu necessario che cominciasse a farsi largo l’idea che il sole e il mare erano salutari, potevano guarire dalle malattie. Una volta il mare metteva paura ed i ricchi erano più legati alla terra. Financo i veneziani, Goldoni docet, villeggiavano in campagna, ma ormai i tempi erano cambiati: il fascismo coniò lo slogan “date al mare un bambino malato, il mare vi restituirà un bambino sano”. Lo sport diventava vacanza, Claudio Ernè racconta di equipaggi che vogavano ore per raggiungere le coste del Veneto, mangiavano, si riposavano e tornavano indietro. Ed ebbe del clamoroso l’impresa di cinque canottieri del Rowing club Trieste che si fecero 1600 km a remi fino a Lugano e ritorno. E a proposito di equipaggi come non ricordare i famosi ‘baruffanti’, un armo composto da alcuni atleti della Libertas Capodistria sempre in lite tra di loro, su cui correva una infinità di aneddoti e di cui si dice che la litigiosità che esplodeva per ogni inezia non rompeva ma finiva per riscaldare, a tempo debito, il loro burbero affiatamento.

 

Argomenti:mostremuseiirci

Riproduzione riservata © Il Piccolo