Quando i Liberatori rubarono all’Istria la dignità dell’italiano

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Le parole sono sempre state un grimaldello. Usato con astuzia dai potenti di turno per scardinare ogni tipo di resistenza. Per indebolire l’identità, per demolire i pensieri non allineati, per far credere il contrario di quello che sta accadendo. Lo sanno bene gli italiani dell’Istria, quelli che hanno abbandonato la propria terra, le proprie case. E quelli che sono rimasti, illudendosi che Tito e i suoi fedelissimi sarebbero stati capaci di costruire una società migliore.
Del resto, i partigiani jugoslavi potevano fregiarsi del titolo di Liberatori. Avevano cacciato i nazisti, e poi i fascisti. Avevano ridicolizzato gli ustascia di Ante Paveli„. Senza chiedere aiuto alle potenze straniere per cacciare da casa propria chi aveva seminato orrori. E allora? Semplice: si sentivano legittimati a fare tabula rasa di tutto quello che non rientrava nel loro limitato orizzonte. Come racconta Nelida Milani, una delle voci letterarie più forti e limpide uscite dalla comunità italiana dell’Istria, nel suo nuovo libro di racconti “Lo spiraglio”, pubblicato dalla casa editrice salentina Besa (pagg. 161, euro 15).
Molti lettori italiani hanno scoperto Nelida Milani nel 1991. Quando Sellerio ha raccolto nel libro “Una valigia di cartone” due suoi racconti lunghi. Sette anni più tardi, la scrittrice di Pola ha firmato con Anna Maria Mori quel libro straordinario che è “Bora”. Un romanzo autobiografico in cui, per la prima volta, un’istriana esule riusciva a sintonizzarsi, a dialogare con un’altra istriana. Rimasta nella propria terra.
Questa volta, in quattro storie, Nelida Milani riporta i lettori agli anni del dopoguerra. Quando, come racconta in “Opzioni e ormoni”, i Liberatori misero in atto la loro strategia per scardinare la fermezza con cui la comunità dei “rimasti” tentava di aggrapparsi alle proprie radici. Partendo proprio dalla lingua. A Pola, giorno dopo giorno, il croato si insinuò a ondate inarrestabili dentro l’italiano. «Chi restava avrebbe dovuto imparare un’altra lingua e dimenticare la propria, perché, dite, a cosa servirà la vostra lingua una volta che avrete imparato quella dei liberatori? E non la imparerete neanche bene, perché non vorrete dimenticare la lingua dei sentimenti, del pianto e del canto, appena i vostri nipoti, soltanto loro la parleranno bene, parleranno benissimo con la voce del possessore e insieme quella dell’essere posseduti, ascolteranno risuonare nella loro stessa voce il trionfo del liberatore».
Sembra “1984” di George Orwell. Ma quella che racconta Nelida Milani non è l’invenzione di un’astratta “neolingua” imposta dal Grande Fratello, ma il dilagare di un idioma per schiacciarne un’altro. Il trionfo, insomma, di un nazionalismo per cancellare anche le minime tracce di quello che era stato prima.
Dal racconto di quanto difficile fosse accettare di cambiare, nascono storie di una bellezza dolorosa. Pagine in cui Nelida Milani porta in primo piano lo strazio di una comunità che si vedeva sottrarre i sogni, la dignità, le illusioni, giorno dopo giorno.
«Ci hanno ridotti nella condizione di non poter spiegare cose complicate con una lingua che conosciamo appena e tanto meno con la nostra che stiamo perdendo per strada. Con la scusa che siamo tutti uguali, siamo finiti in purgatorio, balbettiamo, ci incastriamo. Non c’è la musica delle cose senza la nostra lingua»: basta questo frammento del racconto “Lo spiraglio” a dare corpo a tutta la forza subdola di chi prometteva un mondo migliore. E poi costruiva una società multilinguistica, capace di far convivere popoli diversi, calpestando la cultura, le tradizioni. La stessa dignità dei singoli.
Com’è andata a finire la storia, lo sappiamo bene. Il progetto della Jugoslavia di Tito si è inabissato nel sangue pochi anni dopo la scomparsa del capo dei Liberatori. Del resto, segnali dell’inquietudine profonda li si poteva cogliere ben prima che la precaria convivenza degenerasse in un conflitto infinito. Nelida Milani lo racconta nella strepitosa “Storia di tubi”, dove un gruppetto di amici che lavora ai cantieri di Scoglio Olivi sogna di raggiungere il paradiso Amsterdam. Per farla finita con una vita grama, che il Partito pretende luminosa. Il loro destino non sarà migliore di quello della protagonista di “Villa Contessa”. Incapace di ammirarsi nella specchiera rubata dai Liberatori alla ricchissima padrona della villa. Trasformato presto da oggetto del desiderio a simbolo del malaugurio.
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