Quando l’amore chiama tutta una vita da “etero” può finire gambe all’aria

di Roberto Carnero
Di coppie omosessuali in questi ultimi tempi si parla spesso, soprattutto in relazione al tema controverso di una apposita legge atta a riconoscere loro una serie di diritti. Ma quali dinamiche sentimentali e psicologiche si dibattono nelle relazioni gay? Qual è la sostanza emotiva di questo genere di unioni? Si tratta di una realtà simile a quella delle coppie eterosessuali oppure di una realtà completamente diversa?
Su questo tema è incentrato l'ultimo romanzo di Nicola Gardini, “La vita non vissuta” (Feltrinelli, pagg. 204, euro 14), che racconta una vicenda di amore e passione, verità e menzogna, comunicazione e non-detto con due uomini come protagonisti. Il libro narra la storia di Valerio, un italiano che insegna Letteratura latina in un'università statunitense, il quale, dopo molti anni di matrimonio con una donna dalla quale ha avuto anche una figlia, si innamora di Paolo, un pittore conosciuto casualmente in aereo durante uno dei frequenti spostamenti da New York all'Italia. L'uomo lascia così moglie e figlia e comincia una convivenza con Paolo, mettendo finalmente in atto quella relazione omosessuale che desiderava dai tempi del liceo, quando era fortemente attratto da un compagno di scuola, che però, seppure con garbo, l'aveva respinto: per questo, in qualche modo, fino ad allora la sua era stata una "vita non vissuta".
Ma Paolo ha un segreto, una notizia che comunica in lacrime a Valerio: è sieropositivo. L'ha scoperto solo ora, come giura al suo nuovo partner? Oppure si tratta di una circostanza che gli ha deliberatamente nascosto, forse temendo di non essere accettato? Neanche alla fine del romanzo avremo una risposta, come non l'avrà lo stesso Valerio, il quale, fatte a sua volta le analisi, scopre che Paolo l'ha contagiato. Paradossalmente, la comune condizione di sieropositività unirà ancor di più Valerio a Paolo, in una relazione complessa, fatta di sentimenti sinceri ma anche di diffidenza reciproca.
Nel 2009, Nicola Gardini ha scritto un libro molto duro sull’università italiana. Si intitola “I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana”, lo ha pubblicato Feltrinelli. E racconbta i suoi «sette anni d’inferno» passati a Palermo, dopo aver vinto il concorso da ricercatore. Un’esperianza di progressiva, brutale emarginazione: niente fondi per la ricerca, pochi seminari organizzati, mai una convocazione per la commissione di laurea. Adesso, insegna Letteratura comparata a Oxford. «Avevo vinto io il concorso invece della candidata del direttore di dipartimento», ha raccontato.
Incontrando Nicola Gardini, cominciamo con il chiedergli da dove ha tratto ispirazione per la vicenda e i personaggi del suo libro. «Quando si scrive una storia - spiega - arrrivano alla coscienza materiali di varia origine. Ricordi, letture, chiacchierate con amici... L'uomo che molla la moglie per andare con un giovane è un classico dei nostri giorni. Ne conosco. Ma non è che volessi raccontare la storia di nessuno in particolare. Ho scritto una vicenda di immaginazione, come in tutti i miei libri precedenti, con i quali questo è in dialogo fittissimo. Anche qui abbiamo una formazione, anche qui abbiamo una degenerazione che diventa rigenerazione, anche qui abbiamo l'acquisizione di una nuova lingua (quella della malattia). Volevo entrare nella mente di un uomo che pensa come restare in salute nonostante il virus. Volevo creare un ossimoro, polemizzare con il sistema di opposizioni su cui le nostre società sono costruite: sano/malato; uomo/donna; vita/morte... Ecco da dove si è sviluppata la vicenda».
Al di là del tema dell'Hiv, però, c'è nel romanzo un messaggio più profondo sulla coppia e sui rapporti di coppia: «Il libro parla d'amore, e l'amore è, appunto, metaforicamente, un'infezione, un entrare l'uno nell'altro, confondersi, fondersi, ma anche tenersi distinti affinché lo scambio sia ancora possibile. Valerio e Paolo, con quello che devono passare, mi pare mostrino una via: un continuo quotidiano ricominciamento; un confronto che, se può parere mortale all'inizio, è invece vitalissimo, perché è fatto di un costante impegno a comprendersi e a confrontarsi».
Questo vale per le coppie omosessuali o anche per quelle eterosessuali? «Vale per tutte le coppie, naturalmente. Io, le dirò, faccio fatica a sostenere questa opposizione etero/omo. Quando si parla di coppia, vedo solo due individui che cercano di costruirne un terzo, il loro amore. Il contatto dei corpi non deve significare la sola capacità generativa.
L'anatomia non è per me un principio valido. Se ci sono un maschio e una femmina è probabile che venga concepito un nuovo essere umano. Ma quante coppie cosiddette etero figli non ne fanno, per qualunque ragione. Il vero figlio di una coppia è lo spirito dell'amore, e questo può unire ugualmente persone che hanno gli stessi organi riproduttivi».
In Italia si discute molto su una legge per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, ma, visto dall'Inghilterra, dove Gardini vive insegnando Letteratura italiana all'Università di Oxford, tale dibattito fa forse una diversa impressione. Sull'argomento lo scrittore non ha dubbi: «Tale riconoscimento è necessario. È un diritto che non si può negare più a lungo, tanto più che numerosi Paesi europei già lo hanno riconosciuto. Il dibattito italiano sembra ancora rozzo, si sente l'ottusità di una certa opposizione; però, ho fiducia che le cose si sistemeranno presto: basta riformulare i criteri secondo cui due formano una coppia. La società inglese ha accolto molto bene la legge sul "same sex marriage" (matriomonio tra persone del medesiomo sesso), che è stata varata due anni fa, mentre le unioni civili esistevano già da tempo. Conosco molte coppie di persone dello stesso sesso: ne ho nel mio college, tra gli amici... E non stupisce che l'Inghilterra sia arrivata a questo. Lì il piano privato e il piano pubblico sono tenuti ben distinti. Anche l'Italia deve imparare a distinguerli: in tal modo tutto diventa più chiaro e più semplice per tutti».
Un tema controverso è quello della maternità surrogata, cioè del cosiddetto "utero in affitto", visto da alcuni come una nuova forma di schiavitù della donna. «Essere genitori è un diritto e va accordato. Rischi di sfruttamento della donna, di commerci tristi e abusi violenti possono emergere e già stanno emergendo, anche a proposito di coppie eterosessuali, proprio perché non c'è una giurisdizione che regoli le nascite e protegga le donne disposte a generare per altre coppie».
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