Quando Trieste rise ma a denti stretti con le storie di Bartol
Cinquant’anni fa moriva lo scrittore di “Alamut” che ha ispirato il videogame “Assassin’s Creed”

Una carovana di dromedari, muli e cammelli attraversa una zona desertica diretta alle montagne che fanno da sfondo. Una giovane, spaurita ragazza viene strappata a forza da un ondeggiante padiglione posto fra le gobbe di un cammello e bendata. Ciechi, da questo momento in avanti possiamo intuire ciò che accade solo attraverso l'udito: lo scroscio di un torrente e, poco dopo, il rimbombo sordo delle assi di un ponte ci fanno accorti che il cavaliere ha imboccato una gola al termine della quale le pesanti porte di una tetra fortezza si schiudono per farci entrare.
All'interno la ragazza viene ghermita dalle possenti braccia di un inserviente che la trasportano, attraverso il gelo e il terrore di un sotterraneo, al caldo sole di un profumato e rigoglioso giardino in cui argentine risate femminili spezzano la sua angoscia e la consegnano a quella che, tolta la benda, si rivelerà una vita di delizie, nessuna esclusa. Su di esse incombe, tuttavia, il mistero dell'invisibile, onnipotente padrone di casa, l'inafferrabile Hasan-i Sabbah, capo della temibile setta degli assassini.
Con un avvio fulminante come questo non è quasi incredibile che di Alamut, il grande romanzo storico dello scrittore triestino Vladimir Bartol, non sia ancora stato fatto un film? Bartol, a dire il vero, ci aveva provato subito, mandando nel 1938 il romanzo ancora fresco di stampa alla Metro Goldwyn Meyer. Ma se a Los Angeles, alla fine degli anni '30, nessuno aveva compreso la potenza della storia del Seyduna Hasan e dei suoi fedayn (ammesso che qualcuno fosse stato in grado di leggere lo sloveno), alla fine del primo decennio del secolo successivo, grazie anche alle numerose traduzioni uscite nel frattempo, questa è stata ben compresa dagli sceneggiatori e dagli sviluppatori di una software house canadese, che ne ha tratto una delle più fortunate, longeve e appassionanti saghe dei videogame, un'avventura da milioni di copie intitolata Assassin's Creed.
Il cinquantesimo anniversario della morte di Bartol cade oggi nel pieno di una polemica sull'insegnamento della lingua slovena a scuola che, come sempre, vira al politico e, come sempre, scolora di fronte alle biografie degli artisti triestini: Bartol nasce nel rione di San Giovanni nel 1903, in una famiglia in cui si masticano, scrive Miran Košuta, «l'italiano, il tedesco, il serbo, il croato, il russo, il francese» oltre allo sloveno e al dialetto. Quasi coetaneo di Bobi Bazlen – altro poliglotta che verrà celebrato oggi a Trieste attraverso la presentazione del nuovo libro di Cristina Battocletti - è suo compagno di scuola al liceo tedesco di piazza Lipsia, dove le lingue di insegnamento sono addirittura tre – tedesco, italiano e sloveno. Degli intellettuali e degli artisti triestini della sua generazione condivide gli interessi, le passioni e anche le mode culturali: passa attraverso lo studio della biologia per arrivare alla filosofia e alla letteratura, è curioso di occultismo, mesmerismo, spiritismo, filosofie orientali, cabala e alchimia e quindi, come Bazlen, predestinato seguace di Jung.
Ma soprattutto, appunto, è appassionato di psicoanalisi, la cui scoperta, nei primi anni '20, rappresenta uno degli avvenimenti intellettuali più importanti della sua vita. Come Svevo a Trieste qualche anno prima - ma ancora in quegli stessi anni - Bartol a Lubiana accede direttamente ai testi tedeschi di Freud e ne comprende l'importanza disinteressandosi, o quasi, della loro efficacia terapeutica per approfondirne il significato filosofico. Di più: intreccia la lettura di Freud con quella di Nietzsche e comprende, vent'anni prima di Foucault e trent'anni prima di Basaglia – che darà corpo e azione al proprio pensiero proprio nella sua San Giovanni – che l'esercizio della parola del terapeuta è, anche, esercizio del suo potere.
Il potere della parola di creare mondi e di soggiogare individui e popoli diviene quindi il centro gravitazionale del pensiero bartoliano, tanto che quando, a Parigi, un compatriota gli racconta la leggenda di Hasan, il “veglio della montagna” e del suo inganno che produce un esercito invincibile di fedeli hashishin pronti al martirio, Bartol sente una irresistibile chiamata. Da questa leggenda, riportata anche da Marco Polo e da Dante, nasce quindi il potente “Alamut”, un'opera che attende ancora di essere riconosciuta pienamente nel suo valore e nella sua complessità: romanzo storico, psicologico e filosofico che può essere letto come una storia d'avventura, esotizzante e suggestivo senza scadere mai nel cliché e insieme portatore di una evidente – ma mai soverchiante – lettura politica che è legata ai totalitarismi della sua epoca, ma viene riattivata ogni volta che il carisma di un leader “superuomo” – di nuovo Nietzsche – è tale da imporre la sua volontà ai seguaci al di là di ogni loro bene e del male che infliggono, fino al sacrificio della vita, come nei recenti casi di terrorismo islamico.
Ma è davvero il “credo degli assassini” - la massima esoterica di Hasan nel libro: «niente è reale, fa ciò che vuoi» - la sorgente del potere di un leader pronto a tutto? Qual è la verità storica dietro la leggenda di Alamut? E quali fonti ha usato Bartol, e come? Se ne parlerà oggi pomeriggio, a partire dalle 16.30 al Museo Sveviano di via Madonna del Mare, 13 con Fabrizio Foschini, dottore di ricerca in Storia e Istituzioni dell'Asia e dell'Africa, studioso e conoscitore dell'Afghanistan dove ha vissuto a lungo, mediatore linguistico presso l'Ufficio Rifugiati Ics e studioso dell'ismaelismo, la corrente dell'islam sciita cui appartenevano i seguaci di Hasan-i Sabbah. Subito dopo, chi lo desidera potrà trasferirsi al rione di San Giovanni dove alle 18.30 è previsto l'itinerario ai luoghi bartoliani organizzato dallo Slovenski klub e dal Gruppo 85 – Skupina 85 per la guida di Patrizia Vascotto.
Bartol sarà infine ancora protagonista durante il prossimo SloFest, che aprirà i battenti il 15 settembre e ospiterà alle 17.30 un incontro della serie Lo sloveno con “Empatia - Slovenščina z empatijo” coordinato da Elena Cerkvenič dedicato al romanziere e, infine, il giorno successivo, sabato 16 alle 10, la tavola rotonda con Patrizia Vascotto, Piero Purič-Purini e Massimiliano Schiozzi, dedicata ai racconti umoristici “triestini” (Tržaške humoreske) che Bartol scrisse durante il periodo del governo militare alleato, “tra Gma e Tito”, come recita il titolo dell'incontro, riuscendo nella impresa - non impossibile a Trieste, diciamo la verità, è in ogni caso meritevole per un testo satirico – di far arrabbiare tutti.
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