Quando Walter Bonatti dalla radio ci portava in vetta e nei grandi spazi

di Federica Manzon
«Voglio prendervi idealmente per mano e portarvi con me verso le altezze incontaminate, affinché possiate respirare i grandi spazi e provare quella serenità che soltanto il contatto con la grande natura può offrire».
Sembra di sentirlo, Walter Bonatti, pronunciare oggi queste parole tra le sale del Palazzo della Ragione a Milano che ospita "Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi", la prima mostra dedicata interamente al grande alpinista e alla sua attività di fotoreporter. Fotografie raccolte in più di vent'anni di reportage per il settimanale "Epoca" alla scoperta di luoghi solitari e impervi, spinto da un'irresistibile seduzione per l'avventura e l'ignoto. Fotografie di violenta bellezza che raccontano le distese ghiacciate della Patagonia, le steppe riarse e i mari gialli d'erba, l'intensa esplosione di verde della foresta amazzonica, l'aria azzurra e crudele delle cime da record. E, sopra tutto, la trasparenza dello spazio, del silenzio, un silenzio di aria, luce e cielo.
Guida ideale a questa spettacolare mostra è il libro in uscita oggi "Giorno per giorno, l'avventura" (Contrasto, pagg. 231, Euro 19,90) che raccoglie gli appunti radiofonici di Walter Bonatti per la trasmissione "Onda Verde" di Rai Radio Uno. Per circa un mese, dal 30 gennaio al 25 febbraio del 1984, dalle 6 alle 9 del mattino, la voce di Bonatti è risuonata nelle case e negli abitacoli delle automobili degli italiani. Per qualche ora li ha strappati dai comuni impieghi urbani, per trascinarli in imprese eroiche e spaventose, in mezzo alla meravigliosa ed esotica, scomoda e spettacolare vita dell'esploratore.
Il fascino di questi appunti è duplice: da un lato sono una mappa per il tesoro di luoghi sconosciuti, dall'altro sono la radiografia perfetta dell'animo di un uomo. Appunti metodici, programmati fino all'estremo, nati dalla certezza che nulla vada mai improvvisato (né in montagna, né nella giungla, né davanti a un microfono) e che proprio questa scrupolosità permetta alla fantasia e all'istinto di liberarsi.
Le fotografie in mostra e gli appunti radiofonici sembrano parlare un'unica lingua e portano la firma di colui che fu prima di tutto un uomo d'avventura. Valgono per l'avventura quelle stesse caratteristiche che Bonatti attribuisce all'alpinismo. Entrambi infatti richiedono, prima ancora della tenuta fisica e della tecnica, alcune qualità umane precise: «sensibilità, fantasia, gusto del bello, il bisogno di guardare dentro se stessi, il senso dell'avventura e della lotta, che a loro volta richiedono coraggio, ma anche prudenza, slancio, ponderatezza». E, più di ogni altra cosa, occorre saper affrontare con lealtà la paura.
La natura è infatti per Bonatti la dimensione in cui l'uomo si trova più propriamente a contatto con se stesso e si vede per quello che è: una creatura sola, emotiva, precaria, eppure capace di grandi imprese. Colpisce di questi appunti la disarmante sincerità di uno sguardo che non fa sconti a se stesso. Bonatti racconta il fascino estremo di una traversata nella savana con l'unica compagnia di un pugnale e una tenda leggera, la pa. ce senza pensieri che coglie nelle notti stellate d'alta quota, e nel contempo però non esita ad ammettere la paura della solitudine che a volte prende a tradimento l'alpinista alla vigilia di un'impresa in solitaria, quando gli amici ti salutano con un abbraccio e viene da pensare «se almeno arrivasse il brutto tempo! Domattina potrei scappare, tornare indietro». Il giorno dopo, attaccare la parete ha il sapore di una prova di coraggio verso se stessi.
La montagna accerchia da tutti i lati le pagine del libro e le sale della mostra, rivelando il suo peso decisivo nella vita dell'esploratore, che in alta quota ha attraversato forse i momenti più intensi e drammatici.
Ritorna il ricordo dell'agghiacciante notte a 8100 metri di quota sul K2 senza equipaggiamento e senza il riparo che avrebbero dovuto offrire i due compagni d'impresa, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni, che invece se ne stavano in una tenda a qualche centinaia di metri di distanza, ignorarono le urla di Bonatti e del suo sherpa, gridando loro: «Lasciate le bombole e scendete», cioè morite. Una delle pagine più cupe dell'alpinismo italiano, resa ancora più triste dal silenzio che per anni ha coperto la verità.
Bonatti invece non ha paura di dire le cose come stanno, e dai microfoni della radio attacca un certo giornalismo d'epoca che non gli perdonò di essere sopravvissuto alla tragedia sul Pilone del Monte Bianco, dove morirono quattro compagni. Il suo racconto è straziante e brutale, come il fulgore dei fulmini che assediano un bivacco appeso a un chiodo o il tonfo delle slavine.
Ma non sono solo le montagne e le distese di ghiaccio ad attrarre l'occhio e il cuore di Bonatti, a farsi racconto. Lo conquistano i grandi spazi aperti, la giungla e la savana, i laghi riarsi. Gli animali selvaggi. Così gli capita di passare quaranta notti appollaiato su un albero nel mezzo della foresta indonesiana ad aspettare con la macchina fotografica puntata e il flash caricato l'arrivo della tigre. Di sfuggire per un soffio a una carica di bufali. E un capitolo dei suoi appunti si intitola pericolosamente «ho bivaccato tra i leoni, solo e disarmato».
La descrizione delle Valli Secche d'Antartide ha la potenza spietata di una pagina di Jack London. Bonatti si aggira da solo, silenzioso, in quella che è la più grande concentrazione al mondo di foche mummificate. Osserva i resti di un dramma che da milioni di anni avviene senza testimoni, in una valle lunare dove sembra proibita ogni forma di esistenza e tutto sta a indicare la presenza di forze oscure e maligne, continuamente in agguato come crudeli divinità artiche.
Le foto si susseguono, la voce di Walter Bonatti sembra rivivere nei suoi appunti coscienziosi. Sembra di vederlo mentre all'una di notte avanza silenzioso in un fiume canadese pagaiando piano e ci suggerisce di dare più spazio all'avventura, alla fantasia, alla nostra stessa personalità, all'impegno che ciò richiede.
Bisogna farlo per non diventare schiavi di false libertà che ogni giorno vengono promesse. Fidatevi di me, sembra dirci, «è con orgoglio che io posso dire di aver vissuto, e non subìto, la mia vita, nel bene e nel male».
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