Quegli artisti in fuga da Hitler che rinnovarono l’arte americana

la recensione L’arte contemporanea deve molto a Hitler. Paradossalmente l’espulsione dalla Germania di centinaia di pittori, scrittori e cineasti, che si occupavano di quella che era stata bollata...

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L’arte contemporanea deve molto a Hitler. Paradossalmente l’espulsione dalla Germania di centinaia di pittori, scrittori e cineasti, che si occupavano di quella che era stata bollata come arte degenerata, mise in moto un flusso migratorio che trovò negli Stati Uniti un nuovo e stimolante teatro di ispirazione e di realizzazioni. La legge sulla revoca della naturalizzazione e sulla privazione della cittadinanza tedesca, che prevedeva l’espulsione dei cittadini che si comportavano in modo contrario alla lealtà verso il reich, fu responsabile della partenza, tra il 1933 e il 1941, di circa 25 mila persone. Tra questi vi fu Piet Mondrian, che al suo arrivo a New York, nel 1940, decise di introdurre significative variazioni al suo linguaggio artistico, che era cristallizzato dal 1919: non più linee nere ma serpentine di colori brillanti, giustapposti in tanti tasselli. Max Ernst invece mise a punto proprio nell’esilio americano una nuova tecnica, la oscillazione, che anticipava il dripping di Pollock.

Esempi che dimostrano come il tentativo mettere il bavaglio alle avanguardie europee provocò una nuova fioritura. ‘Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee’ (Il Mulino, 182 pagg., 16 euro) di Maria Passaro, oltre a tratteggiare questo esodo intellettuale che trasformò anche il volto artistico dell’America, si interroga su cosa sia rimasto della cultura di origine nel momento in cui gli artisti hanno cominciato a lavorare negli Stati Uniti e cosa abbia significato la loro americanizzazione da un punto di vista artistico.

La ricerca di Passaro, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Salerno, capovolge la nozione di esilio per giungere a una lettura delle opere prodotte dopo la cacciata dalla Germania non come frutto dello sradicamento e della perdita, ma come nuova opportunità di comunicare un discorso coerente.

Le forze intellettuali messe al bando in Europa e riunite negli Stati Uniti, che con le conquiste militari dei nazisti si allargarono anche ad artisti francesi, come Chagall e Leger, trovarono un canale di dialogo privilegiato con i musei, come il MoMa, e le gallerie. Quella di Pierre Matisse, figlio di Henri, organizzò nel 1942 la mostra ‘Artisti in esilio’, in cui trovarono spazio tra gli altri Mirò, Breton, Tanguy e Chagall. A differenza di tanti altri, Chagall visse il periodo americano come un’esperienza provvisoria, rifiutò l’inglese e, appena finita la guerra, rientrò in Europa. Lo stesso fecero Peggy Guggenheim e, in Francia e non nella natale Germania, Max Ernst. Un altro capitolo analizzato da Passaro riguarda l’insegnamento, che gli esuli impartirono attraverso scuole come il New Bauhaus di Chicago, che rivoluzionò il sistema educativo dell’arte. L’Europa in frantumi ricompose così negli Stati Uniti un nuovo sistema di sapere destinato a cambiare radicalmente l’assetto politico e sociale americano. —





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