Quella canzone, please per mia figlia Stella

TRIESTE. 1982, Mick Jagger è sul palco, a Torino, con la maglietta di Paolo Rossi. 2014, Eddie Vedder è sul palco, a Milano, con la maglietta di Cassano. Intrecci di rock e mondiali di calcio. Tempi diversi, esiti scaramantici diversi. Altro intreccio: proprio in questi giorni, anche i Rolling Stones hanno fatto tappa in Italia. Ha fatto notizia che abbiano soggiornato in una suite “reale” dell’hotel St. Regis che costerebbe 14 mila euro a notte. Sicuramente più alla mano i Pearl Jam, che sono stati ritratti in diversi scatti dei fan mentre facevano shopping (e venivano fermati per foto e autografi) in centro a Milano. Città a cui Eddie Vedder è piuttosto legato: non manca mai di ricordare di aver conosciuto lì la sua attuale moglie. Trieste, invece, è sempre stata fuori dalle mappe dei grandi concerti.
Scrive nel forum ufficiale su pearljam.com la fan Sane Mary: «Pearl Jam, thank you for taking us somewhere we had never heard of before this tour, Trieste. What a beautiful and happy little city». Un ringraziamento ai PJ per averle fatto scoprire Trieste. Mary ha anche una richiesta, quella di inserire nella scaletta «Picture in a Frame» per Stella, la loro figlia undicenne, che ha sentito questa canzone quando era neonata, al Bridge School Benefit show nel 2003.
Diversi genitori portano i loro figli, anche molto piccoli, ai concerti dei PJ. Il triestino Siro Zanolla racconta di aver lasciato dai nonni il suo piccolo Leon (un anno ad agosto) ma di averlo portato alla recente data viennese dei Rolling Stones: «Oggi abbiamo i biglietti per l’inner circle e sarebbe stato un po’ troppo impegnativo… Gli Stones fanno parte della storia della musica, non potevamo farglieli perdere: sarebbe stato il mio primo senso di colpa paterno», scherza Siro che, in attesa dei PJ, aggiunge: «I Pearl Jam li ricordo sempre con piacere - e all’epoca con molto stupore - per il loro atteggiamento diametralmente opposto a molte rockstar: in occasione del loro concerto a Lubiana nel 2000, arrivati con largo anticipo all’Hala Tivoli, a un certo punto si aprono le porte laterali del palazzetto ed escono due tecnici del suono con un tavolo da ping pong: passano un paio di minuti e li raggiungono Eddie Vedder e Jeff Ament, iniziano a giocare, tra lo stupore dei pochi fortunati presenti, firmano autografi, per poi salutare tutti e tornarsene dentro. Dei signori...».
Una rappresentanza di Trieste is Rock ha deciso di seguire anche la data milanese e così la descrive: «Il concerto è cominciato con “Release”, “Nothingman”, “Sirens” e “Black” e l’immancabile bottiglia di vino. Eddie sembrava emozionato, avvolto dalla bolgia di San Siro che canta con lui e sopra di lui, anche quando si inceppa (dandosi dello “str***o”) durante “Given to Fly”. È stata una serata piena di dediche, la prima a Michael, al suo primo concerto, che a mo’ di auguri si vede dedicare “Setting Forth” e “Not for You”. E quando arriva il momento di “Just Breath” la dedica è per la moglie, conosciuta quattordici anni fa in un momento difficile della sua vita. Nonostante non sia più il 1992 c’è stato spazio anche per qualche pogo nel prato e nel pit, mentre la band si scatenava su “Alive”, “Rocking in the Free World,” “Porch”, “Spin the Black Circle”… E poi sei lì a San Siro a guardare l’ingresso dell’Italia in campo e Eddie Vedder esce a fare “Porch” in acustico al posto degli inni nazionali… Spettacolo!».
Aggiunge Raphael Udovici: «A San Siro non si poteva proprio mancare. Dopo una serata del genere cosa vorrei di più da loro? Potrei dire “vorrei averli sotto casa…”, solo che Eddie mi direbbe “Aspetta qualche ora e arrivo!”. Dopo Bruce anche questa volta la doppietta San Siro/sottocasa si ripete… neanche se avessi fatto una wishlist anni fa sarei arrivato a tanto...».
Giuseppe Vergara (autore di “Rockshort”, in cui comparivano anche i PJ) commenta: «Di tutte quelle rock band nate tra il crepuscolo degli ‘80 e i primi ‘90 i Pearl Jam sono il simbolo e la prova che il rock non è mai morto. Nel ‘93 li vidi per la prima volta, la prima di una serie mai troppo lunga. Eddie si presentò con una maschera sul volto, si lanciò sul pubblico e cantò per la terza e ultima volta dal vivo “Sympathy for the devil”. I Pearl Jam presentarono anche alcuni brani di “Vs”, il loro secondo album, che all’epoca non sapevo nemmeno esistesse. Ora quando esce un disco nuovo lo vieni a sapere dai primi rumors un anno prima. Oggi metterò un’altra X alla collezione e nonostante siano passati tutti questi anni la X non sarà decrepita e ingiallita. Non sarà un atto dovuto a una passione giovanile. Non sarà un amarcord e una rimpatriata fra vecchie glorie. Sarà come sempre Rock, energia e passione fatta da cinquantenni coetanei miei che non penso si offendano se li chiamo amici». In questi giorni si sono lette anche le (sterili) polemiche di chi ritiene i PJ un gruppo finito nei ’90. Interessante il commento di Simone Dotto (l’autore del libro appena uscito per Arcana): «So che tanti dei miei amici duri e puri, con un curriculum di ascolti immacolati, saranno tentati di levarmi l’amicizia e magari pure il saluto. Però aspettate. Perché il libro è scritto anche per il popolo degli scettici, per riscattare un po’ i Pearl Jam da questa nomea da “paparino-rock” che si portano appresso e provare a spiegare che, se non la musica, almeno la loro storia non sarebbe stata quella che è stata, se non fossero anche loro un po’ figli dello spirito da American Indie. È la storia di una sopravvivenza, la loro, che dura ormai da 25 anni...».
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