Quelle sei orsoline manager lanciano il business del merletto

Da Vienna arrivano a Gorizia nel 1672, aprono un educandato e una scuola Merito loro se i manufatti si diffondono nell’area friulana. E scoppia la moda

Giovanna Pastega

Grazie alla determinazione di sei suore Orsoline, che danno vita a una rinomata quanto famosa scuola e avviano anche una vera e propria attività imprenditoriale molto redditizia, nella seconda metà del ‘600 in Friuli Venezia Giulia si diffonde l’arte del merletto.

A raccontare la straordinaria storia di queste sei “religiose-manager” è Doretta Davanzo Poli, una delle più importanti storiche e docenti delle arti tessili e dell’abbigliamento, che dall’84 studia e approfondisce il tema del merletto. Ora sta scrivendo il saggio su abiti e pizzi nei quadri di Longhi, “La moda secondo Longhi in alcune opere datate (1741-1781)”, in uscita a dicembre per la mostra a Bologna “Le plaisir du vivre”.

«Sei religiose dalle grandi capacità “imprenditoriali” – spiega - di diversa nazionalità, alcune fiamminghe, come la badessa Caterina Lamberti della nobile famiglia de Paoli Stravius di Liegi e suor Angela Aloisa, altre invece austriache, ma tutte provenienti da Vienna, nel 1672 giungono a Gorizia e qui riescono ad aprire un educandato per giovinette, dando inizio, poco tempo dopo, anche a una “scuola di fuori”, così veniva chiamata, con circa un centinaio di allieve esterne. Le scarne cronache dell’archivio monacale, tramandano che vi si lavorava fino quasi a mezzanotte “merli e altro per guadagno».

«È merito di queste suore – continua la studiosa - se l’arte del merletto si diffonde nell’area friulana, diventando fonte di guadagno, ma soprattutto poi una sorta di tradizione. Dai più antichi reperti rimasti risulta evidente l’iniziale matrice fiamminga, non solo nella scelta degli elementi decorativi, ma anche nella tipologia tecnica. Motivi vegetal-floreali, stilizzati, realizzati a punto tela rado, si snodano su un fondo a maglie più o meno regolari, più o meno fitte, a punto treccia, a mezza mandola, a ragni».

Merletto e pizzo, che non sono ricami ma manufatti realizzati interamente ad ago o a fuselli senza alcun supporto tessile, indicano in realtà lavorazioni diverse: il primo, manufatti ad ago di lavorazione per lo più veneziana (Burano); il secondo invece, una lavorazione a fuselli di produzione italiana o europea. «Sia il merletto ad ago – spiega Davanzo Poli - che rivela una antica origine probabilmente bizantina e viene lavorato accostando punto su punto, sia quello a fuselli, la cui nascita deriva dalla tessitura ad “arazzo” o delle passamanerie con una lavorazione che intreccia contemporaneamente fili diversi per opera di piccoli arnesi a mazza o a fuso, sono la più importante espressione della creatività artistica femminile aristocratica nel Rinascimento italiano».

Che siano pizzi o siano merletti, questi elementi decorativi divennero nel corso del ‘500 e ancor più nel ‘600 una moda davvero folgorante, tanto da essere il passatempo preferito di tutte le nobildonne. Lo testimoniano i “modellari”, libri di disegni per pizzi e ricami, editi per lo più a Venezia, che spiegano in tutte le varianti la fattura e l’utilizzo di questi straordinari “accessori” dell’abbigliamento sia femminile che maschile e persino della biancheria intima.

Tutti pazzi per i merletti, si potrebbe dire. Non a caso a documentare questa sorta di “pizzo-mania” seicentesca ci ha pensato la ritrattistica, che testimonia come nel secolo XVII l’utilizzo dei merletti, di preferenza veneziani ma poi anche fiamminghi e francesi, arrivi a livelli quasi maniacali un po’ ovunque, sia nelle zone influenzate da Venezia che in quelle sotto il dominio ispano-asburgico, addirittura sostituendosi come status symbol della nobiltà e della ricchezza ai gioielli. «Documenti settecenteschi – spiega Davanzo Poli – testimoniano come per tutto il XVIII secolo perdurino in Friuli Venezia Giulia lavori “a gucchia” (cioè ad ago, ma anche a ferri), e la creazione di pizzi a cui si dedica anche manodopera maschile, soprattutto nei tempi “inutili per la campagna”». Centro fondamentale di ogni produzione regionale sempre il monastero di Sant’Orsola.

Nel questionario inviato nell’agosto 1775 dalla commissione scolastica al Magistrato civico - racconta la studiosa - si legge che le religiose di questo monastero “tengono scuola aperta e v’ammettono tutte le Ragazze”, che “istruiscono con tutto il zello e carità, senza ritrarre alcun pagamento: insegnano legere, scrivere, far conti, guchiare, cucire, far merli, ricami ed altri simili lavori femminili”.

Di questa straordinaria attività del convento friulano rimangono fortunatamente, campionari, disegni, attrezzi, testimonianze varie, acquisite dai Musei provinciali di Gorizia. —



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