Ritorno sulle vie dei pellegrini per sfuggire alla noia da ufficio

di Pietro Spirito
La viandanza, ovvero il camminare lento lungo percorsi e tracciati storici, o dimenticati, o fuori dai circuiti, come i pellegrini di un tempo, è ormai molto più che una moda, ma un modo di essere, una sorta di disciplina che annovera un numero crescente di adepti, che conta i suoi festival e una ricca biblioteca. Luigi Nacci, poeta e scrittore, ideatore del Festival della Viandanza, guida della Compagnia dei Cammini e autore del fortunato libro “Alzati e cammina. Sulla strada della viandanza” (Ediciclo, 2014), non è solo un gran camminatore ma, con la sua sensibilità letteraria e narrativa, è forse oggi in Italia il “cantore” più titolato per un racconto esegetico sull’essere viandanti.
Lo dimostra il nuovo libro, “Viandanza - Il cammino come educazione sentimentale” (Laterza, pagg. 140, euro 14,00), diario in seconda persona di come è nata e cresciuta la passione per il lungo cammino. Dalla prima, folgorante esperienza sul Cammino di Santiago (percorso da oltre 110 mila italiani negli ultimi dieci anni), alla scelta di continuare il suo peregrinare sulla via Francigena e oltre, Nacci racconta una vera e propria mutazione spirituale, il passaggio da un io all’altro, al punto che nel racconto le voci narranti diventeranno due: «...da questo momento in poi a parlarti saranno due voci, che partono da me ma che non posso controllare: una è quella sedentaria, sociale, che passa le giornate di ufficio in ufficio, tra i vivi, o coloro che lo sono in apparenza, l’altra è quella nomade, asociale, che cammina con i propri spettri, che cerca il silenzio e il sacro». È in questa luminosa schizofrenia, che abita più o meno in ciascuno di noi, o almeno in quella pur larga fetta di umanità che non si accontenta del “dato”, del flusso superficiale e confuso delle cose- è qui che sta il senso profondo della viandanza, e di questo libro che la viandanza per così dire la rappresenta, ne cerca il significato ultimo.
Moderno pellegrino in cerca di se stesso, Nacci chiama a raccolta gli interpreti più autentici di quella “cerca” che accomuna gli spiriti liberi e inquieti, in una selva di citazioni e rimandi che vanno da Celan a Leopardi, da Neruda a Emily Dickinson, in un’allegra anarchia dove la parola, le parole, segnano gli stati d’animo in cui trapassa ogni esperienza di crescita e che titolano i capitoli del libro: paura, stupore, spaesamento, nostalgia, disillusione, allegria, arroganza, umiltà. E sembra, spesso in queste pagine, di tornare indietro nel tempo, a quei decenni - parliamo in particolare degli anni Settanta e dintorni - in cui la necessità di una ricerca interiore senza compromessi legata a un approccio totale, materico, con l’ambiente, divenne il viatico per quei tanti che fecero del dubbio contrapposto a ideologiche certezze la bussola per orientarsi in un mondo violento e incomprensibile, ieri come oggi. Non è un caso, perciò, che fra le pagine di Nacci salti fuori la figura di Gian Piero Motti, l’alpinista-intellettuale morto suicida nel 1983 a 36 anni dopo un travaglio interiore dove «l’amore per la montagna si era fatto ossessione, facendogli perdere passioni e interessi nella vita ordinaria». I sui dubbi, dice Nacci, «sono i dubbi che tutti noi dovremmo coltivare in cammino».
Un po’ reportage, un po’ conte philosophique, un po’ romanzo, “Viandanza” ci ricorda che «c’è qualcosa, nel cammino, che non pertiene solo alle maschere che ci togliamo». Perché sulla strada «non esistono fatti ma eventi», e l’evento - dagli sguardi agli incontri ai pensieri - «non cessa di avvenire», è un percorso libero e senza fine.
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