Sale sul palco il libro “sparito” dal Campiello

In occasione della votazione della cinquina dei vincitori del premio Campiello, a Padova, c'è stato un romanzo assai citato e lodato nella discussione tra i giurati. Addirittura la presidente della giuria, Monica Guerritore, ne ha letto commossa un brano. Poi però, nel corso delle votazioni successive alla prima, questo libro è a poco a poco scomparso per fare posto ad altri. Si tratta del romanzo di Davide Brullo, Rinuncio (Guaraldi, pagine 138, euro 12,90), un'opera che affronta in maniera originale e suggestiva il tema della rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI. Monica Guerritore se n’è talmente innamorata che vuole trarne un testo teatrale da lei diretto.
Davide Brullo, classe 1979, è soprattutto un poeta. Scoperto dalla rivista Atelier, che ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Annali, nel 2004, la sua ricerca poetica è culminata nel libro “L'era del ferro”, edito da Marietti nel 2007. Il suo primo romanzo s'intitola Il lupo ed è edito sempre da Marietti. È anche traduttore dell'Antico Testamento (la sua versione dei Salmi è edita da Città Nuova).
«L'editore Guaraldi - racconta - ha deciso di pubblicare il mio romanzo sulla rinuncia al trono papale di Benedetto XVI dopo il rifiuto incassato da Mondadori, Einaudi, Guanda. Ora insieme a Monica Guerritore sto lavorando alla messa in scena del medesimo romanzo».
Brullo, ma che cosa è successo al Campiello? Può avere pesato negativamente il fatto che il suo romanzo sia stato pubblicato da un piccolo editore non in grado di competere con i colossi dell'editoria italiana?
«Leggo l'evento del Campiello con due sguardi. Primo: non sarei mai arrivato lì se non avessi pubblicato per Guaraldi. Uno scrittore deve trovare una dimora editoriale che gli consenta il massimo della libertà creativa congiunta a una attenzione esclusiva, severa verso la propria opera. Se Mondadori avesse acconsentito a pubblicare il mio romanzo lo scorso inverno certamente avrebbero pesato altre priorità di scuderia e mai sarei giunto al Campiello. Secondo sguardo: frequentando da dentro il Campiello, ho avuto l'idea di un mondo letterario museale, occluso, ottuso, impermeabile. Se questa è la letteratura, molto meglio stare ai margini, emarginati, nomadi».
Come è nata in lei l'idea di scrivere questo libro?
«Compio gli anni l'8 febbraio, mio padre, che si è ucciso quando ero bimbo, il 10. Lo stesso giorno in cui Benedetto XVI firma il foglio della sua rinuncia. Un evento di dolente debolezza, di magistrale povertà che è stimmate nella storia della Chiesa. Mi è parso un segno equivalente ed opposto all'11 settembre 2001, capace di redimere quello squarcio. Da lì il principio e l'ispirazione».
Come si è posto di fronte alla storica decisione di Ratzinger di rinunciare al pontificato?
«Di Benedetto XVI ho amato il suo essere, agli occhi del mondo, inabile, inadatto a espletare il ruolo papale. Esplicitamente imbarazzato, alieno ai metodi della comunicazione corrente. Molto poco pop, fuori moda, fuori luogo, misteriosamente disorientato. Il gesto della rinuncia, con quelle parole pronunciate con abissale tenerezza, mi sono sembrate la sintesi del cristianesimo. Che non scende a patti, ma violenta, assiso sulla serenità».
Come si può narrare ciò che è costantemente sotto i riflettori, che è stato rappresentato da libri e televisioni?
«La sfida narrativa è stata, esteticamente, affascinante. Usare il marchingegno romanzesco dell'Ottocento, strategia assurdamente ancora d'uso comune, come scegliere il velocipede al posto dell'aereoplano, mi è parso subito una menzogna, un sortilegio inautentico. Al contrario, l'unica possibilità di raccontare un uomo storico, vivente, di cui si ha a disposizione una mole di documenti immane, è sfidare la realtà dei fatti con le sue stesse armi. Costruendo nuovi documenti, in questo caso, le lettere fittizie di Benedetto XVI, capaci di essere più autentici della verità. Per dire, attraverso la finzione, la sola verità consentita».
Accetta la definizione di "scrittore cattolico"?
«Uno scrittore non ha aggettivi. Deve svuotarsi delle proprie convinzioni, aderendo integralmente alla storia che gli è dato di narrare. Potrei entrare nel cuore di Milarepa come in quello di Nabokov o di Ava Gardener o di un qualsiasi passante, non fa differenza. Che io sia cattolico, ateo o buddista, per la letteratura è irrilevante. Decisivo, piuttosto, è che sappia creare qualcosa di autentico e definitivo».
Ma esiste ancora oggi in Italia una narrativa di ispirazione cristiana che sia riconoscibile come tale?
«Allargo lo spettro dell'indagine: penso che Dio sia il tema ineludibile della letteratura occidentale. I libri che non convergono su Dio, tentando di dire di Lui la parola ultima, per ucciderlo o celebrarlo, per sgretolare la millenaria attesa o per amplificarne la gioia, per corroborarla o corromperla, mi appaiono come giochi futili, tentativi spasmodici e incerti di vincere la morte. Gli scrittori italiani attuali si sono dimenticati di Dio per paura di ustioni alla lingua».
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