«Santa Corona proteggici tu dal Covid-19» La Chiesa celebra la martire anti-epidemie

il personaggio
L’errabondo polline dei fiori per gli scienziati non viene spazzato via dal vento, dovessero pur trascorrere secoli interi. Spore di cedro, all’epoca frutto esclusivamente mediorientale, sono depositate nei resti attribuiti a due santi, San Vittore e Santa Corona, martirizzati presumibilmente in Siria nel II secolo. E se di San Vittore la Chiesa ne onora un buon numero, a questo in particolare non si attribuiscono virtù taumaturgiche e resta una volta tanto all’ombra di una donna, di cui tutte le proprietà curative sono appannaggio: Santa Corona, che, ironia del nome, è protettrice dalle epidemie. Comunque il 14 maggio costituiscono coppia di fatto e li si può impetrare, con relativa sicurezza di sapere a che santo votarsi, nel complesso architettonico composto da santuario e convento di Anzù a loro dedicato, in provincia di Belluno.
Due indagini ripetute dall’Università di Padova, nel 1943 una, l’altra nel 1981 eseguita dall’antropologo monsignor Cleto Corrain, hanno accertato che quanto meno le reliquie appartengono a un maschio e a una femmina vissuti ai tempi di Marco Aurelio, e sono oggetto di devozione popolare nel IX secolo intensificatasi a partire dal fatidico anno “mille e non più mille”, che doveva segnare l’inizio della fine dei tempi.
A onor del vero, San Vittore e Santa Corona, sono un po’ tirati per i capelli di qua e di là, dato il fervore invalso ai tempi paleocristiani di traslare dalla Terra Santa brandelli di vesti, sedicenti chiodi della croce di Cristo, spine e vari resti di presunti martiri come souvenir. Infatti sono patroni anche di Orticoli, Castelfidardo, Rivalta di Torino, Castelminio di Resana, Canepina, Monte Romano, Vallerano, oltre che della diocesi di Belluno-Feltre. Il culto feltrino trovava la sua giustificazione nei frequenti terremoti e contagi di peste, cosicché i devoti si affidavano proprio ai due santi, attraverso donazioni spontanee o stabilite per legge, chiedendone l’intercessione. Poi, siccome virus e bacilli non conoscono confini, come del resto la fede, il culto si è diffuso oltralpe; in Austria esiste un paese intitolato a Santa Corona e in Baviera è venerata, sempre come protettrice contro le epidemie e come patrona dei cacciatori di tesori da invocarsi nei casi di gravi problemi economici o finanziari. Quest’ultima facoltà è di primo acchito di più difficile comprensione, non fosse che un’epidemia porta inevitabilmente con sé miseria e carestia.
Come sempre nella Chiesa primitiva, le notizie sono scarse, incerte e ammantate di leggenda. Ma un discreto numero di fonti latine, greche e perfino copte, raccontano il modo in cui affrontarono il martirio. “L’illustre certamen”, una relazione greca del IV secolo, redatta da un diacono della Chiesa d’Antiochia, parla di Vittore come di un soldato cristiano che subì il martirio in Siria nel 171, decapitato dopo efferate torture a cui era stato sottoposto dal prefetto romano Sebastiano. Corona - sposa sedicenne di un suo compagno d’armi dal lampante nome di Christian - presente al supplizio, colpita da fede incrollabile e mansuetudine del giovane, si dichiarò cristiana anch’essa.
Qui è lecito pensare a un residuo minimo di cavalleria che i pagani riservarono alla donna. Le furono risparmiate: lo spezzamento delle giunture, l’olio rovente in bocca, in seguito la calce viva mista ad aceto; l’essere distesa sugli aculei, le ustioni con le fiaccole, l’accecamento con ferri e lo strappo degli occhi poi, la sospensione per tre giorni a testa in giù, lo scorticamento… che erano stati inflitti a Vittore. Gli aguzzini si limitarono a legarle i piedi alla cima di due palme piegate che, raddrizzandosi, la squartarono. L’iconografia la rappresenta con due foglie di palma in mano, mentre Vittore regge in una un ramo d’ulivo con i frutti e nell’altra una spada rivolta a terra in segno di non belligeranza. Verosimilmente i due furono venerati con i nomi che rimandano alla “vittoria” della fede sulla persecuzione e alla “corona del martirio”, dal greco “stefanos”, corona, al femminile “incoronata”, ovvero Stefania.
Ad ogni modo tortuosi sono gli itinerari delle spoglie dei martiri giunte fino a noi, che trovarono pace finalmente alle falde del monte Miesna, magnifico fondale prealpino, nel IX secolo, anche se non tutte intere. Perché il cranio di San Vittore è custodito a Praga insieme a un braccio di Santa Corona, e hanno trovato ricomposizione momentanea nel santuario feltrino solo per un anno, nel giubileo vittoriano del 2011, per poi tornare nell’acquisita patria boema. Comunque i santi inizialmente traslati dalla Siria alla vicina Cipro nell’anno 202, erano passati per l’immancabile tappa: Venezia dove esiste la tradizione di un’antichissima chiesa intitolata a San Vittore, rifatta e consacrata ora a San Moisè in via XXII marzo, a due passi da San Marco. Se risponde a verità che Vittore e Corona furono martirizzati nel 171, Marco Aurelio a 59 anni subì la pena del contrappasso. Nel 180 morì della peste che affliggeva l’impero da anni e venne cremato. L’esercito, al ritorno dalla campagna contro i Parti, un popolo germanico, aveva portato con sé, a partire dal 165 un’epidemia che divampò per quasi un ventennio. Non esistevano all’epoca virologi che potessero definire la natura del contagio; forse fu peste, forse vaiolo o morbillo, ma mieteva duemila morti al giorno nella sola Roma, e infettò fino a un quarto dell’intera popolazione dell’impero.
La ruota doveva ancora girare. I santi Vittore e Corona evidentemente nulla poterono contro il morbo dell’imperatore persecutore dei cristiani, cui la folla dell’epoca dava la caccia come untori, responsabili di epidemie, carestie, invasioni. Colpevoli di aver causato la collera degli dei, avendoli negati, nel nome di uno solo. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo