Sillani e lo zen della fotografia

L’artista di radici armene da anni lavora sul paesaggio: «Per me comincia dalla pietra carsica»
Foto BRUNI 21.03.2018 Mario Sillani, artista
Foto BRUNI 21.03.2018 Mario Sillani, artista

«Fino a un mese fa avevo uno studio di centoquaranta metri quadri in via Palestrina» esordisce Mario Sillani Djerrahian. «Per vuotarlo ho fatto duecento volte le scale perché dovevo portare via tutto: mobili, cornici, vetri, sculture, e naturalmente fotografie».

In quello studio l'artista ha lavorato per trent'anni, realizzando anche opere a cui adesso non si dedica più, come le foto incollate su lastre di vetro successivamente colorate, e le sculture ottenute con un misto di alluminio e fotografie. Il suo spazio ora è un cubicolo, come lo definisce lui, una stanza ospitata nell'atelier di Cassiopea, cooperativa sociale attiva nel campo artistico e teatrale con sede in via San Francesco.

Sillani (foto di Francesco Bruni), nato ad Addis Abeba da famiglia armena e arrivato a Trieste da bambino, dimostra subito interessi diversi che vanno dai fossili alla pesca subacquea, dalla meccanica alla tecnologia, tanto che studierà per un anno Ingegneria. «Fu Nino Perizi a farmi scorpire l'arte. Si accorse che disegnavo bene e al Revoltella, dove insegnava, mi mandò all'ultimo piano del museo e lì dipinsi ben sessanta quadri a olio. Ma Perizi mi suggerì anche verso quali letture orientarmi». È però un regalo a segnare il destino di Sillani: una macchina fotografica. Con questo apparecchio inizia a realizzare foto utilizzando come soggetti gli amici colti in pose insolite, vince dei premi, fonda il Centro Fotografico Gamma con alcuni fuoriusciti dal Circolo Fotografico Triestino. «Feci la mia prima mostra a Trieste grazie a Giulio Montenero. A quell’epoca, nel gruppo di Arte Viva, c’era Miela Reina a farmi da modella. Ricordo che lei disegnava continuamente, su ogni carta e ogni cosa le capitasse sotto mano. Poi buttava via tutto. Io raccoglievo e conservavo i suoi lavori». Sillani espone molto in Europa e in America, a fianco a nomi come Pistoletto e Vaccari, in una mostra in Svizzera con Warhol, a Venezia conosce Bill Viola che poi rivedrà per strada a New York.

Collabora con Marina Abramović: «Quando ancora non ci conoscevamo, lei venne a vedere una delle mie prime mostre personali a Belgrado. Poi, negli anni, ha anche dormito a casa mia. Nel 1977 ho realizzato le foto di una sua performance alla Biennale di Venezia: sette rullini da trentasei scatti l'uno per un libro a tiratura limitata pubblicato dalla Galleria del Cavallino. Qualche anno fa si è rifatta viva per sapere quanto volessi per rieditare quel servizio. Per un po’ abbiamo contrattato con il suo segretario torinese ma alla fine non ci siamo accordati sulla cifra, lei si è arrabbiata e abbiamo chiuso i rapporti».

In questi giorni un grande cartellone campeggia sul castello di San Giusto per promuovere la mostra “Trieste – I fotografi – Oggi” allestita all'Aim Alinari Image Museum: la testa di un uomo di cui non si vedono il naso e gli occhi coperti da un rettangolo, formato foto, grazie al quale emerge, come da una finestra impossibile, il paesaggio circostante. È una foto di Sillani dove il soggetto senza volto è sempre lui: «Risale al 1980: all'epoca molte persone facevano confusione tra me, Adriano Dugulin e Geri Pozzar e ci scambiavano l'uno per l'altro. Noi ci scherzavamo e infine abbiamo fatto una foto tutti e tre insieme». Gli interessi di Sillani toccano anche la performance, il cinema, il video d'artista di cui è tra i pionieri in Italia. Dal '70 al '73 è presidente della Cappella Underground: «Un bellissimo ricordo. Facevo di tutto: da organizzare e allestire le mostre a scopare per terra. Peccato che all'epoca la Cappella non abbia ricevuto l'appoggio dell'Università e dell'Istituto d'arte». L'insegnamento è un'altra attività importante: corsi di fotografia al Museo Revoltella e in altri enti triestini, visiting lecturer al Polythecnic of Art di Sheffield in Inghilterra, ma anche un corso sperimentale pluridecennale di fotografia, cinema e televisione alle scuole medie, con i bambini che fanno una petizione per poter proseguire quell'attività.

Parlando del suo lavoro, Sillani individua una prima e una seconda parte: «Tra il '68 e il '78 cercavo un linguaggio all'interno della fotografia e ho trovato i fotografemi, un neologismo che ho inventato per definire il mio fare fotografico, un'indagine su di me e sulle possibilità di stampare in positivo, in negativo, di duplicare le immagini, di inserire dei numeri, fino ad arrivare all'astratto. Dall'80 fino a oggi, invece, la mia ricerca si è concentrata sul paesaggio: il paesaggio esiste se lo fotografo e io esisto se faccio parte di esso». Concetti che ben si legano al senso della ripetizione e del fotografare fotografie, pratiche utilizzate da Sillani con lo stesso spirito di un rituale zen. È da qui che nascono i suoi cicli di Polaroid, protagonisti di mostre e di performance apprezzate da Los Angeles alla Biennale di Venezia, ed è sempre qui che matura il suo interesse per le campiture astratte di colore di Rothko che per lui diventano un paesaggio interiore, mentale, che non è più il bel panorama ma qualcosa che ti porti dentro.

Sillani, venuto dall'Africa, ha trovato il suo approdo in Carso al punto da affermare: «Il paesaggio per me inizia dalla pietra carsica». Intento a fotografare le gemme di frassino che, ingrandite, sembrano mini giardini bonsai, riserva un'ultima battuta alle troppe foto che si scattano oggi: «Una volta c'era solo l'album di famiglia ed era meglio».

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