Sorrentino accarezza la morte dei genitori Il dolore e Maradona in un sogno spezzato

“È stata la mano di Dio” è il primo titolo italiano al Lido Il regista: «Mi sono sentito maturo per un film personale»
Manuela Pivato
Zoe Saldana arrives for the premiere of 'E' stata la mano di Dio' during the 78th Venice Film Festival in Venice, Italy, 02 September 2021. The movie is presented in the official competition 'Venezia 78' at the festival running from 01 to 11 September 2021. ANSA/ETTORE FERRARI
Zoe Saldana arrives for the premiere of 'E' stata la mano di Dio' during the 78th Venice Film Festival in Venice, Italy, 02 September 2021. The movie is presented in the official competition 'Venezia 78' at the festival running from 01 to 11 September 2021. ANSA/ETTORE FERRARI



E poi arriva il tempo della distanza, almeno di sicurezza, in cui il dolore morde meno e si lascia accarezzare. È in questo tempo esatto, dopo aver compiuto cinquant’anni, che il regista Paolo Sorrentino ha guardato in fondo al proprio buio, ha tirato fuori il ragazzo che era a 17 anni quando rimase orfano dei genitori e l’ha restituito in 130 minuti di film poetico, che fa piangere, ridere e molto altro.

“È stata la mano di Dio”, primo film italiano in Concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, prodotto da Netflix, passato ieri sera in Concorso in Sala Grande e accolto dasette minuti di applausi, racconta la giovinezza del regista Premio Oscar in una Napoli che aspetta l’arrivo di Diego Maradona per farne un simulacro davanti al quale smania anche Fabietto Schisa, interpretato da Filippo Scotti già in odore di Coppa Mastroianni, scelto da Sorrentino proprio perché gli ricordava «la timidezza e il senso di inadeguatezza» della sua adolescenza.

È in una grande famiglia caotica, felice e infelice a modo suo – ricomposta ieri sera sul red carpet del Lido, dopo il passaggio, tra gli altri, di Marchio Bellocchio, Alessandro Borghi, Zoe Saldana – che Fabietto gode dell’affetto dei genitori, interpretati da Toni Servillo e Teresa Saponangelo, prima che una fuga di monossido di carbonio non li uccida nella loro casa di Roccaraso. Fabietto, che si salva solo perché era andato a vedere la partita del Napoli diventa dolorosamente uomo, entra nel lutto senza risparmiarsi nulla, nemmeno l’incapacità di piangere, decide di fare il regista perché vuole «un’altra realtà» e va a cercare fortuna a Roma.

«Sorrentino mi sempre detto che un giorno avrebbe trovato il coraggio di raccontare questa storia e che io avrei fatto il padre» spiega Servillo, che ritorna al Lido insieme al regista a vent’anni esatti dal loro debutto insieme alla Mostra con “L’uomo in più”. «Credo che abbia fatto il film proprio per prendere le distanze dal suo dolore, per non farsi prendere al laccio. Devo dire che durante le riprese ci siamo anche molto divertiti; nel film si ride e si piange».

Ci sono voluti 34 anni al regista di “La grande bellezza” per portare sul grande schermo la propria pena, ma, come ha spiegato in conferenza stampa, «a un certo punto si fanno bilanci e ho pensato che ero abbastanza grande per affrontare un film personale». «Ho messo più coraggio nello scriverlo che nel farlo» ha aggiunto. «Durante le riprese, infatti, si entra in una dinamica di problemi di ordine pratico, magari stai per commuoverti ma subito qualcuno viene a chiederti cosa deve fare. Tutte le paure che avevo sono svanite nella quotidianità».

Il titolo del film (nelle sale dal 24 novembre), tratto dalla frase lunare pronunciata dal calciatore argentino per giustificare il gol di mano «mi sembrava una bellissima metafora» ha spiegato il regista «che è in relazione al caso e al potere semi divino di Maradona. Purtroppo non sono riuscito a mostrargli il film».

Circonda Fabietto un coro di nonne in pelliccia, sorellesempre al bagno, fratelli pelandroni, zii e zie in abbondanza tra cui la schizzata e provocante Luisa Ranieri («se avessi avuto una zia così la mia vita sarebbe stata diversa»); di vicini di casa amanti del Tirolo (veramente esistiti), del fidanzato di una zia ex carabiniere e dilettante pasticcere che parla attraverso un laringofono, interpretato dall’attore veneziano Alessandro Bressanello che, giura, «è il film in cui mi sono divertito di più in vita mia». E via di parente in parente fino alla baronessa vicina di casa, vecchia e polverosa, ma che toglie Fabietto dalle peste della verginità e che, dopo averlo concupito e fatto uomo, gli offre una sigaretta. «È la cosa più bella del sesso» dice. —

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