Sorrentino, un Papa narcisista che convince solo a metà

Ozon pacifista in “Frantz”, l’horror “Brimstone” tradisce le aspettative
Di Beatrice Fiorentino
03/09/2016 Venezia, 73 Mostra Internazionale d' Arte Cinematografica. Photocall del film The young Pope ( episodi I e II ). Nella foto il regista Paolo Sorrentino ed il cast con Jude Law, Silvio Orlando
03/09/2016 Venezia, 73 Mostra Internazionale d' Arte Cinematografica. Photocall del film The young Pope ( episodi I e II ). Nella foto il regista Paolo Sorrentino ed il cast con Jude Law, Silvio Orlando

VENEZIA. Un Papa-divo, tormentato, ambiguo. Uomo di potere, affascinante come una rockstar e cupo come il personaggio di una tragedia shakespeariana. A un primo sguardo assai più vicino a un Frank Underwood del Vaticano, che a Papa Francesco Bergoglio, paladino degli umili. È Pio XIII, al secolo Lanny Belardo, primo pontefice americano uscito dall’immaginazione di Paolo Sorrentino per “The Young Pope”, la serie televisiva in dieci puntate prodotta da Sky (in onda dal 21 ottobre su Sky Atlantic e negli Stati Uniti sulla Hbo), i cui primi due episodi sono stati presentati ieri, in anteprima, alla Mostra del cinema di Venezia. Il Papa giovane ha lo sguardo algido di Jude Law -acclamatissimo - fuma e sotto la veste talare nasconde un fisico scolpito. È ultra-conservatore e, fin dalle primissime ore di pontificato, intenzionato a fare “la rivoluzione”.

«È un Papa diametralmente opposto a quello esistente - ha commentato Sorrentino - ma è nell’ordine delle cose che il successore di Bergoglio possa essere un pontefice più conservatore. Secondo me è illusorio che la Chiesa sia davvero cambiata con Papa Francesco. Il mio Papa, in futuro, potrebbe risultare molto verosimile».

Il Vaticano potrebbe non gradire, «ma - prosegue il regista - non è un problema mio. Ho portato avanti un lavoro che affronta con onestà e curiosità, fin dove si può e senza voglia di provocazioni, le contraddizioni e le difficoltà di quel mondo, e anche le cose affascinanti del clero e delle suore e di un prete in particolare che è il Papa».

Intanto, a Venezia, il giudizio, all’uscita dalla proiezione per la stampa dei primi due capitoli della serie, si è spaccato di netto, come ci si poteva aspettare, tra detrattori convinti e sostenitori entusiasti. A dire la verità, apparentemente (ma il giudizio finale va inevitabilmente rimandato alla visione completa della serie), la nuova modalità espressiva destinata al piccolo schermo sembra comunque giovare al regista, per una volta costretto a sacrificare (ma solo in parte) l’eccesso di tracotanza visiva in favore di un incedere narrativo più piano.

Non che si possa fare a meno dei soliti “sorrentinismi”: dai dialoghi sentenziosi ai dolly e i plongée, fino a un protagonista narcisista cucito su misura su di sé (“Non so se mi meritate” rinfaccia Pio XIII ai fedeli raccolti a San Pietro per acclamarlo) e ai ralenti delle suore impegnate in una partita di calcio come furono le pallavoliste de “L’amico di famiglia” (o dei cardinali di “Habemus Papam” nel film di Moretti). L’impressione, comunque, è che stavolta il regista napoletano, premio Oscar per “La grande bellezza”, possa aver imboccato una strada narrativamente più interessante rispetto a quella oziosa degli ultimi film. Grazie soprattutto a un personaggio intrigante, con un cast azzeccatissimo e misurato (oltre a Jude Law, ottimi anche Silvio Orlando, Javier Cámara, Cécile de France, Diane Keaton, Ignazio Oliva), a momenti spiazzanti e persino a un’apprezzabile vena di humour.

Il Male, secondo diverse forme e sfaccettature, è stato il tema dominante della giornata. Dalle oscure trame per la conquista del potere al Vaticano, a un padre-padrone violento ed efferato nel selvaggio West, fino alla guerra (il Primo conflitto mondiale) che non risparmia dolori a nessuno.

Due i film in concorso. Dalla Francia, il melodramma in costume “Frantz”, ambizioso remake del “Broken Lullaby” (“L'uomo che ho ucciso”) di Ernst Lubitsch, tratto da una piéce teatrale di Maurice Rostand.

Siamo alla fine della Grande guerra, nel 1919, in una cittadina della Germania. La giovane Anna (Paula Beer) ha perduto il suo promesso sposo, Frantz, caduto al fronte in Francia. E da allora vive con quelli che avrebbero dovuto essere i suoi suoceri, straziati dal dolore per la morte del figlio.

Un giorno un ragazzo francese di nome Adrien (Pierre Niney) porta dei fiori sulla tomba di Frantz. Racconta di essere stato legato al suo amico tedesco e, dopo la prima diffidenza, finisce per riportare la vita in quella famiglia affranta. Poi, la confessione di una verità inaspettata. E tutto cambia.

Ma forse dal dolore può comunque rinascere l’amore. Divisioni, diffidenze, sospetti, vendette, fratellanza, perdono, e soprattutto l’amore. Temi senza tempo, e forse un monito a guardarsi dall’alimentare nazionalismi di qualsiasi sorta. Un bianco e nero retrò, interrotto dal colore nei momenti emotivamente più intensi, una forma iper-classica che avrebbe fatto urlare di sdegno François Truffaut e tutti i giovani autori della Nouvelle Vague, presa probabilmente a prestito per sottolineare fino a che punto certi temi universali non invecchiano mai.

Colpa e redenzione, l’imprevedibilità dell’amore, la follia della guerra, permettono al regista francese François Ozon di lanciare un messaggio pacifista e di giocare ancora una volta con i generi esplorando le passioni umane, spesso ambigue e triangolari. “Frantz”, interpretato da Pierre Niney e Paula Beer, sarà distribuito in Italia a partire dal 22 settembre da Academy Two.

Religione e violenza, invece, sono i temi chiave del western con spruzzate di gore “Brimstone”, firmato dal regista olandese Martin Koolhoven, che ha portato con sé al Lido la fresca bellezza di Dakota Fanning, già una diva del futuro. Un inizio folgorante, brutale e minaccioso, offre a Guy Pierce il ruolo di uno spregevole “villaine”. Liz (Fanning) è una giovane donna muta in fuga da un misterioso e violento predicatore (Pearce). Il racconto procede a ritroso, esplora la brutalità e le dinamiche di manipolazione della fede religiosa così come la dominazione maschile sulla donna.

Purtroppo mancano l’ironia di Tarantino (e i sottotesti politici), lo humor nero di Paul Verhoeven, il rigore essenziale del recentissimo “The Witch”, così le premesse entusiasmanti dell’incipit finiscono per deragliare pur senza trascurare uno dei leit motiv del buon horror, ossia l’eterno ritorno del male. Nel cast, in un piccolo ruolo, compare anche uno personaggi televisivi del momento: Kit Harington, alias Jon Snow nell’acclamata serie tv “Game of Thrones”.

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