“Stai zitta”e non rompere nove frasi che le donne non vogliono sentire più

Un saggio elegante e acuto di Michela Murgia per Einaudi sulle ingiustizie di genere e sulle parole che le definiscono

la recensione

Michela Marzano

«Stai zitta». Non so nemmeno più quante volte me lo sono sentita ripetere anch’io durante un dibattito, un convegno, talvolta persino a cena con amici e colleghi, quando magari l’atmosfera si scaldava e no, non ero d’accordo! Volevo discutere, argomentare, capire meglio, spiegare il mio punto di vista. Ma, come scrive giustamente Michela Murgia nel suo ultimo saggio, “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più”: «La donna socialmente gradita è una donna silenziosa che diletta con qualunque arte, tranne quella oratoria». In poche parole, Murgia coglie perfettamente uno dei più grandi problemi di fronte al quale ci troviamo ancora oggi: una donna che parla infastidisce, provoca, disturba, mette a disagio.

Celebre scrittrice, e tra le figure intellettuali di riferimento nel mondo della cultura italiana, Murgia affronta con eleganza, brio e intelligenza quel legame sottile e mortificante che da sempre esiste, per le donne, tra le ingiustizie che vivono e le parole che le descrivono o con le quali ci si rivolge loro. In un universo in cui sono quasi sempre i maschi che hanno la possibilità di esprimersi in televisione, alla radio o sui giornali, mentre le filosofe, le scrittrici, le giornaliste e le politiche che si azzardano a prendere la parola vengono sistematicamente trattate come saccenti, maestrine, isteriche, talvolta persino galline.

Ma come? Starà pensando qualcuno. «Ormai voi donne siete dappertutto!», come recita il titolo di uno dei capitoli del saggio. Dopo il danno dello «stai zitta» arriva anche la beffa della presunta onnipresenza femminile. Cioè? Si staranno chiedendo tutte coloro che non hanno mai avuto nemmeno la chance di essere invitate a partecipare a un convegno o a un talk show, nonostante un curriculum vitae perfetto e un numero importante di competenze, e che mai e poi mai si rifiuterebbero, se invitate, di andarci. Cioè? Si staranno domandando tutte quelle donne che non capiscono come sia possibile ancora tirare fuori questa storia delle competenze, quand’è evidente che il problema non ce lo si pone mai quando si invita un uomo. Chi ci crede ancora a questa bufala delle competenze, quando si è costretti a sorbirsi ore e ore di stupidità o banalità inanellate dai maschi e che, proferite come se si trattasse di verità universali, danno una pessima immagine del nostro Paese?

Dopo il grande successo di Istruzioni per diventare fascisti, Noi siamo tempesta e Morgana (scritto con Chiara Tagliaferri), Michela Murgia, con Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” (Einaudi, pagg. 128, euro 13), ci regala uno strumento prezioso e necessario non solo per analizzare il mondo che ci circonda, ma anche per decostruire tutti quegli stereotipi di genere veicolati dal linguaggio. Come quello della «mammizzazione delle donne che arrivano all’apice», spiega Murgia, e che passa tranquillamente attraverso una frase come «brava e pure mamma!» che, lungi dall’essere un complimento, rappresenta uno dei tanti strumenti che si trovano nella cassetta degli attrezzi patriarcali per sminuire la donna. Oppure quell’espressione terribile – «spaventi gli uomini» – che continua a veicolare l’assurda idea secondo la quale una donna che dissente è solo una “rompipalle che ha sempre da ridire su tutto”, mentre quando è l’uomo a dissentire si tratta di “una voce coraggiosa che non le manda a dire”.

L’ironia e l’intelligenza di Michela Murgia attraversano dall’inizio alla fine questo saggio. Ma forse è nel capitolo consacrato alla frase «Sei una donna con le palle» che la scrittrice supera se stessa. Non solo perché viene affrontato di petto quello che è, anche per me, il principale ostacolo per ogni donna, ossia il pregiudizio secondo cui il parametro per definire l’eccellenza non può che essere la «maschilità», ma anche perché Murgia riesce a farlo con grazia e leggerezza. Come quando racconta di quella volta in cui venne presentata come «un importante scrittore italiano» e il relatore, di fronte alle risa della platea, si scusò dicendo: «Io stimo troppo la tua scrittura per definirti solo scrittrice». Come se l’unico modo per meritare il rispetto fosse quello di annullare la propria femminilità, accettando i parametri del sistema patriarcale. Mentre è solo partendo dall’analisi della «tragedia semantica» che caratterizza la nostra epoca che si può poi rivendicare davvero il fatto di stare dalla parte delle donne. Inutile far finta che il linguaggio sia secondario. È sempre attraverso il linguaggio che ognuno di noi forgia il mondo in cui vive. —



Riproduzione riservata © Il Piccolo